Be here now

di Marco De Pietro

Meditare e vivere luoghi lontani con gli occhi di altre persone: Sud America, Tibet, Australia

Le Ande – Sud America

Cammino.

Davanti a me solo una strada sterrata, ma se solo sposto lo sguardo verso la mia destra, le Ande mi lasciano senza fiato. Non sembrano alte ma sono senza fine. Mi immagino di poterle percorrere come un equilibrista su di un filo interminabile, attento a non cadere. Fermandomi per riprendere fiato, con le braccia ben aperte per distribuire il mio peso, riuscirei ad oltrepassare l’orizzonte e scoprire cosa si nasconde dall’altra parte: un nuovo Paese, città lontane, cibo e odori differenti, ragazzi dal viso diverso dal mio ma con la mia stessa rabbia, con la mia stessa voglia di riscatto.

La polvere si alza al nostro passare, anche se procediamo lenti: cerco di far riposare Nacho, il mio fedele guanaco, e non svegliare Ana, che dorme quasi cullata dal galoppo costante.

Devo sbrigarmi, il sole caldo sta per tramontare e noi sembriamo vagare per l’ampia valle di Calingasta: forse lo faccio di proposito, voglio godermi questo tempo, l’odore secco e puro della mia terra, il calore della mia piccola, il mio sguardo che si perde tra il bianco delle cime.

Ormai é passato del tempo da quando abbiamo lasciato Barreal, e le terre si colorano di rosa. Abbiamo attraversato la pampa del Leoncito, Ana colpita dai racconti della nostra gente non voleva perdersela: il letto di un antico lago ha lasciato ora lo spazio ad una distesa argillosa, arida e bianca, in cui soffiano venti costanti. Nonostante la sabbia nei nostri occhi é stato divertente. Scorgevo il sorriso di Anita, aggrappata a me ed avvolta dalla sua coperta rossa preferita.

Mi accorgo che da sud inizia a soffiare il zonda, che di sicuro rinfrescherà il pomeriggio. Cerco di accelerare la ripida salita: voglio raggiungere casa prima di sera e poi riprendere subito il mio viaggio per non lasciar spazio ai miei pensieri.

“Siamo arrivati, papà?” dal buio echeggia la domanda. “Sì, la vedi quella luce laggiù? Zia ci sta aspettando”.

Un fuoco lento riscalda la piccola stanza e la tavola pronta conforta i nostri corpi stanchi. Già ci sentiamo in famiglia anche se era da molto tempo che non rivedevo mia sorella Isabel con suo figlio Juan: ha 7 anni, uno in meno rispetto ad Anita, ma sembra già un ometto sicuro di sé. Ci sediamo a tavola e dopo aver mangiato humita ed un piccolo asado criollo, Isabel prepara un mate che sorseggiamo mentre i due piccoli iniziano a giocare come se si conoscessero da sempre.

I sorsi caldi alternano la nostra conversazione. Il sapore amaro del mate accompagna il nostro discorso. “Sei sicuro di voler andare? Sei sicuro che sia la scelta giusta?” mi domanda lei con voce soffice. “A volte non ci sono scelte migliori di altre; a volte bisogna aver il coraggio di seguire solo il proprio istinto. Se seguissi il mio cuore, resterei qui accanto a lei; se ascoltassi il mio cervello saprei che ti sto chiedendo troppo. Ma sono stato coinvolto dai loro racconti e dalla loro speranza nel poter cambiare le cose. Lo faccio per te, per i nostri figli e per le persone che neanche conosco: mi unisco al General José de San Martín, perché è ora che le cose cambino; è ora che anche altri Paesi si liberino dagli spagnoli invasori. E poi conosco queste montagne come le mie tasche, sarò utile”.

“A lei cosa dirai?” – “Già le ho parlato: sa che vado via per qualche giorno ma che presto ritornerò. Che non sarò mai così lontano se riusciremo a guardare lo stesso cielo. Che qui ha tutto ciò di cui ha bisogno. Ma lei ha uno spirito forte ed autonomo proprio come me, saprà fronteggiare la nostalgia”.

Un abbraccio fugace, un piccolo rifornimento di cibo e via senza voltarmi, lasciando indietro poche tracce.

“Sembra che stiano per cadere, sembra che possano entrare tutte tra le mie mani” disse Anita con il volto all’insù. “Qui é sempre così: le stelle ci fanno compagnia rendendo la notte meno buia e meno solitaria” rispose Juan, sentendosi l’esperto dei cieli. Anita prese allora a correre davanti casa avvolta dal suo mantello rosso e con le mani rivolte al cielo, volteggiando in uno strano balletto, chiudeva gli occhi per poi aprirli e scoprire le mille stelle, ognuna con uno splendore diverso.

“Presto in casa, é ora di andare a letto” disse Isabel.

La girandola rossa smise allora pian piano di girare, aspettando che lentamente la spinta iniziale si affievolisse. Riguardò il cielo e si rivolse a Juan: “Guarda ho raccolto un po’ di luce per stanotte”.


 

Immobile.

Gli occhi sono ancora chiusi: come sempre l’udito e l’olfatto anticipano la mia vista, risvegliando il mio corpo con odori familiari e piccoli suoni.

C’è qualcuno che mormora al di là della mia piccola stanza, come una piccola cantilena che ho imparato a riconoscere. L’aria è fredda, la sento arrivare tra le pietre delle mie pareti, la sento attorno a me pungente sula mia pelle dura. Ha un odore secco, misto all’erba dei campi.

A poco a poco ascolto il mio corpo che lentamente inizia a muoversi; cerca di ribellarsi al mio essere seduta con le gambe incrociate e con la schiena ben dritta. Io resisto ancora un po’: voglio ancora una volta e per l’ultima mattina, prendere lentamente coscienza di me stessa e riconoscere ciò che mi circonda, fingendo di non saperlo. Mi aiuta a riflettere, a concentrarmi.

Così prima di aprire gli occhi, vago tra le mie sensazioni ed i miei pensieri. Mi vedo sorvolare la valle e le alte montagne innevate che ci circondano, scrutare il monastero di Kala Rongo da lontano per  avvicinarmi velocemente come un uccello in picchiata per sorprendere il canto delle mie compagne.

Ripercorro gli ultimi tre anni di ritiro, di isolamento nel Drupkong. Le preghiere, l’aver imparato i sentimenti del Budda e a leggere le sue scritture, l’aver compreso la provvisorietà della vita, la fugacità delle cose. Un tenero sorriso sorprende il mio viso: riconosco di essere felice, sono contenta di poter iniziare un altro giorno e di ultimare il mio ritiro.

Ora sì: voglio aprire gli occhi. La minuscola stanza è ancora buia, saranno le cinque del mattino.


Tibet

Rapidamente mi alzo dalla mia cassa di meditazione, vicino ho una tozza con dell’acqua e la uso per rinfrescarmi il viso, sistemo la tunica rossa e spalanco la porta.

Il tempio di Lhakong è come sempre proprio davanti a me: si innalza ai piedi della montagna nella valle che ho imparato ad amare e a riconoscere con il nome di Nangchen, costruito con l’impegno delle monache alle quali per la prima volta fu offerta l’opportunità di ricevere un’istruzione e un’educazione religiosa.

Intravedo Tsur ai piedi delle scale, la raggiungo ed insieme ci avviciniamo al tempio per la preghiera. “Come ti senti oggi?” mi domanda. “Bene!” rispondo io, “Mi sembra di respirare in modo diverso, assaporare l’aria più velocemente”.

“Oggi verrai con me in città” si affretta a dirmi quasi interrompendo la mia risposta, come quando non resistendo e guidati da un impulso frenetico ti aiutano a scartare velocemente un regalo perché certi che ti possa piacere. “Andremo a fare spesa per il monastero in città” continua lei. Io annuisco, cercando di nascondere l’emozione ed il mio fremore.

Il furgoncino percorre la strada che ci porterà a Shondra. Sono tre anni che non mi allontano dal monastero ed i miei occhi sono spalancati vogliosi di percepire ogni piccolo cambiamento: le montagne verdi sulle quali ricordavo più alberi, il fiume che sembra scorrere con più aggressività, la strada asfaltata che accorcia le distanze rendendoci meno lontane dalla vita di tutti i giorni e avvicinandomi alla mia famiglia.

Non ho conosciuto mio padre, e ho sempre provato un particolare distacco verso mia madre e mio fratello, è strano pensare di riavvicinarmi a loro. Al di là degli anni passati e della nostalgia che non ho provato, ho quasi sempre pensato che non mi appartenessero; forse quando mio padre è andato via, ha portato con sé una parte di me. Ed io ho sempre vissuto come se avessi bisogno di recuperarla o almeno di cercarla. Ero irrequieta, sempre in movimento, al contempo entusiasta ed infelice della vita. Forse per questo mia madre accettò l’invito dell’abate Lama Norlha Rinpoche, di portarmi via con lui: avevo 15 anni e promise di insegnarmi a leggere e di cancellare il karma negativo. Col tempo ho imparato che la sofferenza umana non ha fine e che tutti gli esseri viventi sono stati una volta i miei genitori: soffrono nell’infinito ciclo della nascita, vecchiaia, malattia e morte. Abbandonando però i beni terreni, si abbandona anche il dolore. E la mia insistente insazietà dalle cose, dalle persone, da mio padre si è placata, almeno credo.

Arrivati in città, ci avviciniamo al mercato. Vengo colpita dalle tante persone, dal vocio insistente e dagli sguardi. Presto, senza volerlo, partecipo ad un gioco di sguardi curiosi dove a vincere è chi scopre le differenze più velocemente. Capelli corti quasi rasati, tunica rossa, guance pronunciate e bruciate dal sole caldo delle alte quote, sguardo fugace, voce bassa. Hanno vinto loro, sono stati più veloci. Sì avete ragione, mi chiamo Tashi e sono una nuova monaca, avrei voluto gridare.

Dal furgone prendiamo i formaggi ed il burro che produciamo attraverso l’allevamento degli Yak, un duro lavoro ma che ci permette di aver una buona merce di scambio.

Oggi compreremo della farina d’orzo per poter poi preparare lo Tsampa, e della buona carne. Abbiamo il compito di far quante più provviste possibili per il convento.

Io però ne approfitto anche per dare uno sguardo alla città trovandola molto più disordinata e caotica: la gente urla ed il mercato è pieno di bancarelle di ogni genere. Tutti cercano di vendere quello che possono per poter sfamare la propria famiglia.

Vedo in giro anche tanti bambini.

Uno in particolare colpisce la mia attenzione: indossa un maglione marrone, sembrerebbe di lana. I suoi occhi sono piccoli e profondamente scuri, la sua bocca rossa e screpolata dal freddo.

“Quanti anni hai?” gli domando. “7” risponde lui con una leggera diffidenza.

Dimostrando tutta la curiosità di un bambino, un attimo dopo ha già pronta una domanda.

“Perché hai i capelli corti se sei una donna?” – “Sono una monaca e vivo tra le alte montagne in un bel monastero”.

Il silenzio accompagna i nostri sguardi, che iniziano ad essere meno invasivi. Sembra un bambino che ha deciso di voler essere grande. Intorno a lui non vedo né altri bambini né un padre o una madre a sorvegliarlo, infatti.

Prendo dalla mia tasca un pezzetto di formaggio secco di yak e glielo offro. Lo mette subito in bocca, cercando di succhiarlo lentamente per assaporarne il gusto dolce. Quasi d’istinto afferra la mia mano. Sento che un’altra domanda sta arrivando e questa volta l’accolgo con un cenno di sorriso.

“Ma da lì sù, le stelle sono più vicine?”.

Gli stringo la mano, ed iniziamo a camminare.


Australia

Corro.

Vengo trascinato: i miei piedi restano indietro e cercano di stare al passo con il resto del corpo, ma la mia mano è sempre più avanti.

Mi guardo in giro per capire dove sono ma non riconosco nessun palazzo. Le macchine sembrano sfrecciare e seguire il flusso della gente che cammina assieme a noi sul marciapiede; sembriamo andare tutti in una stessa direzione. Corriamo assieme, alcuni si spingono quasi come se fosse una gara. Ognuno guarda avanti a se, alcuni parlano distratti al cellulare ma seguiamo tutti lo stesso percorso.

Ci sarà sicuramente qualcosa alla fine della strada: forse danno un gelato gratis.

Ho fame. Inizio quindi ad aumentare il passo, le mie gambe quasi raggiungono la mia mano. Voglio un cono con cioccolato e panna, e se posso con dei confetti.

Cerco allora anche di intravedere il gelataio. Dovrà essere uno grande per poter aver lo spazio per tutte queste persone. Sposto lo sguardo in avanti, cercando di scorgere qualcosa ma sono tutti più alti di me e poi c’è un signore ciccione che non mi lascia sbirciare. Lui si che sarà affamato di gelato. Quasi lo vedo correre più degli altri.

Se non posso guardare avanti allora provo a guardarmi attorno. Ci sono solo palazzi alti; cerco di allungare il collo per intravederne la fine, ma non ci riesco. Le strade sono enormi, forse perché qui le auto sono più grandi, altrimenti perché farle così larghe?

Al bordo del marciapiede vedo dei signori che riposano, su dei cartoni o su delle sedie. Alcuni hanno una chitarra e suonano, altri lamentano qualche frase o stringono attorno a sé dei piccoli cani come se fossero dei peluche.

Ecco che il treno di persone si ferma, forse è la fila per entrare. Meglio iniziare a domandare, meglio iniziare a convincerla. “Mamma, io lo voglio cioccolato e panna”, cerco di gridarle. “Cosa? Non è ora di mangiare” risponde seccata lei, che ne approfitta per cambiare la mano con la quale sta stritolando la mia da un bel po’, trascinandomi da una parte all’altra. Ma allora cosa stiamo aspettando? Ed ecco che iniziamo a muoverci nuovamente e finalmente capisco. Stiamo attraversando la strada e quello era solo un semaforo rosso.

Ma allora niente gelato? Ma allora perché corriamo? Io non voglio più.

“Mamma, sono stanco e ho fame”, sicuro ora mi ascolterà. Ed invece lei continua senza sosta e per velocizzare mi prende in braccio. Ora posso guardare quello che prima non riuscivo: la folla che ci insegue senza sosta. E posso osservare anche le loro facce, intravedendole tra i lunghi capelli rossi di mamma.

Da questa altezza riesco ad osservare con più attenzione tante cose soprattutto quando i palazzi prendono un po’ di respiro tra di loro.

Vedo del verde, dei cavalli con degli strani signori con un cappello blu, vedo sbucare uno strano treno sopra di noi, sorretto da tanti pali.

Riesco a scorgere l’oceano, credo. Il sole rosso del tramonto luccica su una distesa azzurra. Sì, sarà proprio quell’acqua che vedevo da lassù, dall’aereo che abbiamo preso stamattina.

E poi vedo uno strano palazzo, tutto bianco con dei tetti ondulati e rivolti all’insù, ed acanto un enorme ponte.

“Mamma come hai detto che si chiama questa città?” –“Sydney, amore”.

Poi pian piano, la gente scompare dietro di noi: chi entra in un palazzo, chi gira per un’altra strada, chi sale su auto gialle, chi stancandosi ha rinunciato alla gara.

Anche noi prendiamo strade diverse fino ad entrare in un parco che mamma chiama Hyde Park. Qui è tutto più tranquillo, un po’ assomiglia a casa mia. Ci sono bambini che corrono sull’erba, uccellini e piccoli scoiattoli.

Ci sediamo su di una panchina, mia madre compra una kangaroo pie senza cipolle per me, e una surprise papaya per lei. Iniziamo a mangiare e a riposarci.

La guardo, lei non sembra stanca: continua a muovere le sue gambe anche stando seduta. Forse non vuole perdere il ritmo. Forse è solo nervosa.

Le mie le tengo ferme a penzoloni dalla panchina.

Cerco di non sporcarmi, ma tanto lei mi sorveglia: con un occhio guarda la sua macedonia selezionando i pezzetti che vuole mangiare e con l’altro guarda me.

“Ti ricordi perché oggi siamo qui?” mi domanda lei tra un boccone e l’altro, “Si, per conoscere un nuovo nonno.” Le rispondo senza pensarci, come quando imparo una poesia a memoria. Più volte me l’ha raccontato, fingo di capire ma non capisco: ora ho 5 nonni? E perché solo ora?

Le foglie verdi degli alberi si muovono lentamente spostate da un vento caldo, la stessa tranquillità della mia città, e la pancia piena mi fanno per un attimo chiudere gli occhi.

Il telefono suona ed io dal mio sonno ascolto lo stesso.

“Si, tutto ok ma ancora non l’ho incontrato… aspetto 10minuti e poi vado!” – “Si, si, sono calma; ho aspettato tanto ed ora non voglio farmi prendere dall’emozione” – “Si, hai ragione” – “Lui sembra tranquillo, ha mangiato ed ora si è appisolato” – “Si, anche io ti vorrei qui con me, ma è andata così” – “Ok, ti chiamo subito dopo”.

“Chi era?” faccio io, svegliandomi pian piano. “Papà, che ti manda tanti baci”.

Dai piccolo ometto, in marcia.

Non avrò dormito così tanto ma ormai il sole non c’è quasi più ed i lampioni del viale iniziano ad accendersi segnalandoci la via d’uscita.

Appena l’ultimo albero ci lascia, i miei occhi vengono riempiti da mille luci. La città con il suo giallo, il suo azzurro che quasi vuole sfidare il bianco delle stelle. I colori si uniscono e si confondono. Ora siamo vicini all’acqua, all’oceano, e sulla sinistra rivedo da vicino lo stesso strano palazzo di oggi pomeriggio. Sembrano tante capanne una dentro l’altra. Ora però non sono più bianche: cambiano di colore, dall’azzurro al viola.

Mamma si guarda attorno ma non è distratta dalla luce e da tutte queste cose nuove. Sta cercando di riconoscere qualcuno.

Un uomo alto e magro con la barba bianca, si avvicina. “Sei tu, Anne? Sei tu, vero?”.

Mamma non risponde ma d’istinto lo abbraccia, stringe le sue braccia attorno a quel corpo magro e le sue mani quasi si incontrano. Lui rimane immobile. Ed io rimango ad osservare.

“Da quando ho saputo, ti ho cercato e cercato. Sapevo che ti avrei trovato, sapevo che ti avrei conosciuto”, sussurra mia madre all’orecchio dell’uomo. “Ed io sapevo che ti avrei rivista, che ci saremo rincontrati un giorno; in cuor mio non ti ho mai lasciato, sapevo che sarei tornato da te”, risponde l’uomo muovendo lentamente quelle labbra rosse coperte dalla barba bianca.

“E tu chi sei?” mi domanda, avvicinandosi di colpo. “Mi chiamo Joshua, ho 7 anni, vivo a Tarura, ho una sorella più piccola e tu sei il mio nuovo nonno”. Recito le ultime frasi della poesia, guardando mia mamma ed aspettando un segno di approvazione.

La sua mano grossa e ruvida, prende la mia e quella di mia madre e ci sposta, facendo rivolgere i nostri corpi verso la baia.

“Guardate in alto, abbiamo sempre osservato lo stesso cielo”.


 

Se si potesse continuare a viaggiare seguendo una strada al confine del nulla.

Poter viaggiare attraverso gli occhi delle persone e la loro storia, attraversare vite diverse ma collegate tra di loro.

Come quando siamo coscienti che ci manca qualcosa e continuiamo a cercare senza tregua, come quando ci ostiniamo a seguire una via escludendone altre, come quando ci avanza del cuore, come quando visitiamo un posto nuovo e ci sentiamo a casa.

E se fosse vero, ognuno di noi avrebbe già fatto il suo viaggio del mondo, avrebbe già visitato luoghi, conosciuto persone o perfino rincontrato alcune.

O magari si è ancora in viaggio, in un giro ancora lontano dalla sua fine.

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