Mal d’Asia

di Monica Catellani

Un lungo viaggio in Asia accompagnati dalle migliori guide autoctone

 

Esiste il mal d’Asia?
Del mal d’Africa si dice tanto e per le esperienze avute (in particolare Namibia 2002 e Sud Africa 2008, ma ci sono anche Marocco ed Egitto) devo dire che, al ritorno, resta veramente un dolce malessere, un desiderio di rivedere i colori e la natura del continente nero. Patagonia 2003, Nuova Zelanda 2005 e diversi altri viaggi tra USA e Canada, poi, non fanno certo parlare (anche se l’Alaska non si dimentica di certo!)
Ma del mal d’Asia ?
Ebbene, se esiste, io ne sono profondamente affetta!!! Oppure sono, genericamente “malata di viaggi” (cosa molto probabile), come tanti. Prima o poi, lo scoprirò; ma di questo “male” non voglio assolutamente guarire.


Mi resta, tuttavia, il sospetto di avere davvero una cronica e gravissima malattia che mi porta ad adorare l’Asia. E’ lì dove io ritrovo completamente me stessa, dove mi ricarico – come una pila – di energie positive, dove scopro e godo una forma di serenità psico-fisica che nessun altro luogo mi regala, dove nutro il mio cuore e la mia mente con  vero nettare degli Dei.
L’Asia (per i luoghi che ho visitato: Nepal e Tibet 2004, India e Laddakh 2007, Giappone 2008, Sri Lanka 2004, Uzbekistan 2006 ed ora Mongolia, agosto 2010) è tutto: natura incontaminata, animali meravigliosi, panorami mozzafiato, colori spettacolari, cultura e religioni intatte vere e sentite, persone schiette e con un cuore immenso, tecnologia ed avanguardia, tradizioni ed arretratezza, estrema ricchezza e grandissima povertà, ritualità e praticità, futurismo e sopravvivenza quotidiana, profumi di fiori e piante e profumi meno gradevoli, sapori inattesi …. per me, sorpresa, stupore, meraviglia ed ammirazione ad ogni angolo.
E’ sempre come la prima volta!!!
E anche questo viaggio in Mongolia mi ha completamente rapita, mi ha fatto vivere 21 giorni indimenticabili e mi ha fatto conoscere persone incredibili, che neppure un romanziere sarebbe in grado di creare.
Cercherò di raccontarlo un pò a casaccio, molto di pancia e poco di testa.
Sono ancora talmente pervasa dalle emozioni provate che non riesco proprio a stabilire una logica, un filo conduttore per scriverne in modo ordinato. In quanto scrivo, quindi, regna il caos totale e, all’apparenza, anche alcuni aspetti della Mongolia sembrano “disordine/accozzaglia” ma – a ben guardare – un ordine c’è oppure basta crearselo.
Il viaggio, complessivamente, è sicuramente duro, pesante e faticoso. La mia è stata una scelta abbastanza valutata ed esaminata e soprattutto fortemente voluta. A queste condizioni è un viaggio eccezionale; diversamente, può anche risultare troppo provante.
Affrontare ore ed ore (anche 9 ore di viaggio, è stato il massimo) in jeep, tutto ovviamente su strada sterrata (dopo un raggio di 5 Km da Ulaanbatar, l’asfalto non esiste più, più, più), ti concia per le feste!
Si scende dall’auto, a volte, anche un pò traballanti e come passati nel tritacarne. Ma passa subito: un pò perchè il viaggio stesso è parte integrante delle esperienze ed emozioni che si vivono e, poi, perchè basta guardarsi intorno per ritrovare subito energie inaspettate, per fare, andare, sperimentare, scalare, cavalcare, andare a cammello, fare trekkiing, visitare una famiglia di nomadi e condividere con loro cibo e bevande, apprezzare la bellezza e l’interesse di un monastero, assistere ad una funzione buddhista, parlare con le persone che ti accompagnano, avvicinarsi o farsi avvicinare da un pastore o da un nomade per la sola curiosità di guardarsi negli occhi e scambiarsi qualche sensazione a gesti, visto che a parole non si conclude assolutamente nulla (i mongoli parlano solo la loro, o meglio le loro lingue), incontrare anche altri viaggiatori strani (tipo due spagnoli in mountain bike, con tenda igloo, infreddoliti, affamati e praticamente disperati … poi rivisti ad Ulaanbatar in condizioni decisamente migliori). Stai subito benissimo e vorresti che la giornata non finisse mai.


Anche le  notti in campo tendato sono tante e mancano i comforts cui siamo abituati, ma basta saper apprezzare quanto disponibile. Soprattutto è l’unico e vero modo per avere un assaggio di vita nomade e se non si prova quello (anche se in forma turistica) non si può assaporare la Mongolia vera. Le tende sono, comunque, arredate al meglio, le stufe offrono il necessario calore per la sera e la mattina (fa davvero freddo e pensare che abbiamo trovato 21 giorni di sole intenso, temperature diurne anche di 33° ma di notte precipita anche a 0 o pochi di più, una mattina ci siamo anche svegliati con una spruzzatina di neve), le gher ristorante sono bellissime ed offrono buon cibo, i servizi igienici sono assolutamente accettabili. E’ divertente  e molto conviviale dover aprire e chiudere le aperture della sommità della gher, accendere la stufa ed alimentarla (sempre che lo voglia fare tu e per questo devi lottare visto che le ragazze/i ragazzi del campo vogliono provvedere, loro, a tutto). I gestori lavorano come pazzi: in continuazione puliscono i bagni e le docce, ti fanno trovare l’acqua calda all’ora che vuoi tu (dovendo, spesso, accendere appositamente i generatori), ti portano in tenda acqua calda con the e caffè la sera e la mattina presto, sono sempre disponibili coperte aggiuntive calde e discretamente pulite nonché teli, a volte, più candidi di un mio bucato migliore.
Poi, che dire di un campo tendato gestito da vegane?!
Niente carne, niente alcolici! (grave, perchè all’arrivo era di rito la birrozza, insieme alla guida ed agli autisti). Quindi (ideona della nostra guida!), per una delle due sere di nostra permanenza, ci siamo fatti preparare un barbecue mongolo (dal pastore che abita più vicino) con una capra uccisa alle 12,00, cucinata per 3 ore nel barile di latta, con le pietre roventi ed accompagnata da verdure Le pietre, ancora calde – prima di iniziare a gustare la carne squisita – vanno passate di mano in mano per avere anche un toccasana generale per la salute.
Hai voglia di pizza o di spaghetti? Nessun problema! Basta una telefonata al mattino della guida e, alla sera, sei servito ed anche di buono. Ti piace la verdura e la frutta (rarità, per non dire assenza totale, in Mongolia, al di fuori di Ulaanbatar)? Nessun problema: un pò di verdura c’è sempre (cavolo cappuccio, cetrioli, pomodori, patate, carote) e la frutta (mele ed arance) te le compri nella capitale e quando stai per finirle – in pieno deserto del Gobi – ti arriva (casualmente) una jeep con altri turisti (direttamente da Ulaanbaatar) con un rifornimento di 2 Kg di mele e arance. Non sei contento? Nel bel mezzo sempre del Gobi, in trasferimento, ti arrivano marito e moglie a bordo di una moto scassata che vendono (a bordo pista) cocomero e melone e non fai in tempo a vederli che la guida ti ha già comperato di tutto. Hai voglia di qualcosa di dolce, praticamente inesistenti nella dieta mongola? Non so dire come e da dove, ma due biscotti ci sono, un cucchiaio di macedonia o ciliege in scatola pure, un kit kat non si nega a nessuno!


Insomma, l’organizzazione del tour operator (GoAsia e suo corrispondente), ma soprattutto l’atteggiamento complessivo dei mongoli è quello di offrirti tutto quanto possibile, sia loro proprio o appositamente reperito per te, a qualsiasi costo. E questo atteggiamento vale per qualsiasi cosa e qualsiasi esigenza tu dimostri.


Mi sono ritrovata in campo tendato “ecologico” con i bagni non serviti da acqua corrente, ma con un sistema di allontanamento dei liquami; mi ha preso male e, in mezz’ora, mi sono ritrovata un cessetto chimico in camera (che vergogna essere stata schizzinosa! … e pensare che non è da me) Mi sono quindi sentita in colpa oltre che cretina, ma i gestori del campo sembravano felicissimi di aver risolto il mio “problemino” e per nulla infastiditi.
A volte, quindi, ti senti persino troppo “servito e riverito”, ma poi ti rendi conto che per loro è un piacere, non un dovere, per loro sei l’ospite d’onore che, però, non viene trattato con freddezza e distacco, ma assolutamente coinvolto nella vita quotidiana e tipica del paese, puoi condividere tutto con loro; sostanzialmente entri nella grande famiglia del popolo dei nomadi.
E trovi anche campi attrezzatissimi con tanto di sauna e servizio massaggi.
Consiglio a tutti un massaggio tradizionale mongolo (simile allo shatzu) ma con varianti. Una ragazzina (minuta e dagli occhietti a fessura) ti massaggia, ti preme con forza sui punti del corpo che corrispondono ai flussi di energia e agli organi vitali, ti allunga, ti tira, ti contorce, ti disarticola. Usa mani, dita perforanti, unghie, gomiti, ginocchia e ogni parte del suo corpo. Davvero un massaggio “strong”, ma il risultato è che per giorni e giorni (almeno una settimana) il corpo resta liberissimo, i muscoli sono completamente decontratti, le articolazioni sembrano appena oliate, si sta d’incanto!
Assolutamente da non perdere le specialità della cucina del periodo estivo (il cibo bianco: derivati del latte): airag (latte di cavalla fermentato leggermente alcolico); lo yogurt di cavalla essiccato, i formaggi freschi di capra, lo yogurt di latte di cammella (molto acido ma squisito), il the salato al burro (meno orrido di quello del Tibet), gli infusi di bacche selvatiche e, per chi osa, le interiora di una capra appena uccisa (con i pezzi macellati distesi nella tenda e ben disposti) bolliti nella grande pentola che sta sempre, sempre, sopra la stufa delle gher dei nomadi.


Poi, ti può capitare che 3 capre ti entrino in gher, che i cavalli siano fuori dalla porta, che i cani della prateria abbiano una tana davanti al tuo ingresso. Oppure, che una notte diluvi come mai visto in vita mia, per ritrovarti al mattino con un cielo sereno e tersissimo, o ancora, una bella tempestona di sabbia che inizia alle 21,00 all’improvviso, dal nulla, tanto forte da far volare le sedie e i tavolini della distesa fuori dalla gher ristorante (e non sedie di paglia o legno,  ma di ferro e belle pesanti) con un ululato di vento assordante per tutta la notte, ma dormi benissimo ugualmente e, al mattino, cielo blu e sole stupendo.
Il nostro tour si è svolto praticamente a fine stagione turistica, ormai quasi tutti erano andati e  l’ultima settimana siamo sempre stati gli unici e “venerati” ospiti dei campi (un campo per 3 turisti + guida ed autista). Questo penso abbia contributo a rendere ancora più esclusiva la nostra esperienza anche se, onestamente, la vastità degli spazi è tale da annullare qualsiasi effetto anche massiccio di presenze umane.
Il viaggio che, prima di tutto, per me, è il viaggio/trasferimenti in quanto tale, ci ha visti in giro (da sud a nord) per più di 5000 Km (le indicazioni di Goasia erano decisamente tutte in difetto), esclusivamente in fuori strada. Le jeep erano attrezzatissime, decisamente confortevoli e tenute come gioielli. Ogni sera, gli autisti lavavano le auto per averne la soddisfazione di lucentezza durante la sola notte; al mattino, dopo 2  metri erano già sommerse di polvere. Ma questo non è tutto: ad ogni sosta un pochino prolungata venivano spolverate, le maniglie accuratamente pulite, le portiere sempre aperte dagli autisti, le bottigliette d’acqua sempre pronte e piene in posizione di ogni seduta (ha fatto caldo, soprattutto i primi 15 giorni e abbiamo bevuto come cammelli). A parte una “maniacale” cura per l’auto, questo fa parte degli atteggiamenti di cura ed attenzione che, ad ogni istante, le persone mongole ci hanno riservato. Grazie al costante bel tempo le piste erano nelle condizioni ottimali, ma  sono ugualmente da incubo. Polvere o sabbia ovunque, buche che sono voragini (non oso immaginare anche solo con due gocce d’acqua; metà dei kilometri percorsi sarebbero diventati pantano infernale), cambi di direzione improvvisi, accelerazioni e decelerazioni continue. Ma la maestria degli autisti è incredibile: veloci quando si deve essere veloci per attutire il disagio (quando la pista è scalinata, ma senza buche), lenti e dolci quando le asperità sono marcate.

Credo che alla fine di alcune giornate, gli autisti avessero le braccia letteralmente a pezzi  ed il collo spezzato.  Ancora mi domando come sia possibile essere tanto resistenti e bravi nella guida. Senza contare la tensione e l’attenzione che richiede quel tipo di guida. Basta pensare a come ci si orienta. I nostri autisti (ve ne parlerò anche dopo, soprattutto di uno, conosciuto meglio), entrambi nati da famiglia nomade (rispettivamente 51 e 57 anni, ben portati) ci hanno spiegato che in quegli spazi sconfinati, dove la prateria – piuttosto che  la steppa o la sabbia – sembrano non finire mai (lo sguardo arriva solo al cielo), loro si orientano in base alle colline, alle rocce, ai pochi alberi esistenti, a qualsiasi costruzione fissa esistente, oltre che al sole. Tutto ciò che è immobile ha un nome e funge da “cartello stradale”.

Per inciso: in tutta la strada fatta non ho visto un cartello stradale (tranne la capitale, ovviamente) di alcun tipo (ferro, pietra, legno), nulla di nulla. E poi (a differenza di altri luoghi, ad esempio nelle regioni montagnose del Tibet o Laddakh, dove la pista è una ed una soltanto e, quindi, non si sbaglia) in Mongolia, nella distesa immensa che circonda sempre, le piste che si vedono contemporaneamente sono anche 10/12 che corrono parallele e non si capisce dove vanno, se e quando  confluiscono. Spesso ci si aiuta anche con la richiesta di conferma sulle direzioni al pastore che si incrocia piuttosto che al cammelliere o ci si avvicina appositamente alla gher di una famiglia nomade per sentire direttamente. Con questi “mezzi” e soprattutto abilità, non abbiamo avuto il benché minimo problema e si può ben capire che, dopo pochissimi giorni, ci siamo sentiti in mani sicurissime, in totale fiducia nei nostri eroici accompagnatori dai quali ci saremmo lasciati portare ovunque ed in qualsiasi condizione. La loro percezione della nostra tranquillità estrema, mista ad ammirazione, è trapelata presto e, così, si è instaurato un rapporto meraviglioso, di gesti piccoli ed affettuosi, completamente sostitutivi delle parole (quando la guida non era in zona), ma più comunicativi di qualsiasi conversazione.

Una sola banale foratura a un Km dal campo con cambio gomma in 10 minuti, un malfunzionamento della chiusura centralizzata (praticamente una delle auto non si apriva più) e ci siamo impegnati in piena sera/notte tutti (compresi i gestori del campo) per provvedere; siamo riusciti staccando/sostituendo la batteria e quindi resettando tutti i  sistemi elettronici. Altro episodio buffo: nel bel mezzo di un tardo pomeriggio, arrivati al campo, sistemato i bagagli e dopo 6 ore di viaggio stancanti, siamo pronti per fare 5 minuti di auto ed andare a salire il vulcano Ulaan Uluu. Saliamo in macchina, iniziamo la retromarcia dal parcheggio e si sente uno scoppio, nel posteriore, infernale. Io resto immobile e gelata, muta e non mi nuovo, Silvano dice “bomba!” e in un nanosecondo è fuori dall’auto (io impietrita dentro), Alessandro fa lo stesso. Cosa era? Il thermos dell’acqua calda (per il the/caffè del pranzo al sacco) dell’Ikea letteralmente scoppiato.


Dicevo che il viaggio è prima di tutto la strada? Si perchè, per quanto sballottati come le palline delle estrazioni delle lotteria, si sta incollati al finestrino, fuori c’è il mondo mongolo da vedere. Anche la sosta più breve riserva sorprese. Ci fermiamo per fare pipi e/o allungare le gambe per 5 minuti e arriva il pastore che, incuriosito, si avvicina e cerca di stabilire un contatto con noi oppure il ragazzo a cavallo che vuole mostrarti i suoi animali. Ti fermi per uno sguardo rapido ad alcune rovine, scatti una foto (anche a discreta distanza) ad una gher e dopo 5 minuti arriva la ragazzina (che ti ha visto), seguita poco dopo dal fratellino e poi dal padre e – in meno che non si dica – tutta la famiglia è davanti a te, con un sincero sorriso in volto e gli occhi che parlano. E’ così che tenti due parole in inglese e a volte scopri i nomi (grazie ai ragazzi che frequentano le scuole anche se nomadi; si radunano dal lunedì al venerdì in alcuni villaggi con scuola, anche a centinaia di chilometri da casa/gher e ritornano il sabato e domenica) oppure va a finire che ti invitano a visitare la loro “casa”, a vedere mungere la cavalla e ci scappa un goccio di airag e altri assaggi. Oppure, sei fermo al parcheggio, pronto a partire per una salita a piedi che porta ad un monastero e ti arriva, con un camioncino scassato, una famiglia di 9 persone (bambini e vecchi inclusi) che hanno smontato completamente la gher e caricata sul furgone (con le donne, nel cassone, ovviamente!), cavallo al seguito e si preparano (con tenda, stoviglie, cibo, vestiti) a partire per il monastero dove resteranno per alcuni giorni in preghiera e, poi, fare di nuovo ritorno “a casa” (ovvero all’ultimo luogo di pascolo dove hanno lasciato gli animali).
Riguardo all’itinerario e luoghi visitati devo dire che è stato assolutamente completo ed appagante. Ripercorrerlo, secondo le tappe, non ha senso e non renderebbe giustizia della sua bellezza. Meglio dire che il timore di una Mongolia monotona è presto scongiurato. Avendo percorso da sud a nord, abbiamo visto di tutto, i paesaggi sono stati vari e tutti molto belli, la stessa steppa (che poi diventa deserto) è vero che è immensa, ma cambia di giorno in giorno, magari per piccole cose, ma è sempre diversa. Poi, all’improvviso, in mezzo ci trovi un vecchio lago prosciugato che ha dato al terreno la conformazione di una crosta tutta crepata (tipo sughero), oppure un lago vero con tanto di bordi bianchi di sale, erba, fiori rossi e le papere.
E’ stata estasi totale di fronte alla natura tutta che la Mongolia ancora conserva. Le colline ondulate e verdi della prateria, con i magnifici cavalli, le zone montagnose o rocciose vegetate con i cervi, quelle invece ricoperte di licheni gialli, quelle ancora più aspre che meritano una arrampicata (magari solo 100 metri e ti ritrovi a dominare una vista d’immensità), fino alle vette fiammeggianti dei canyons o alle formazioni calcaree dai mille colori.

Qualsiasi cosa che fosse anche solo un rilievo, non abbiamo resistito, lo abbiamo salito/scalato/arrampicato. La valle delle aquile è un bel contesto anche se di aquile non se ne sono viste; in compenso, quando meno te lo aspetti, ti si presentano davanti avvoltoi giganteschi. I fiumi (più o meno grandi) sono sempre uno spettacolo perché creano vegetazione nelle loro prossimità. Il lago Hogsvol è un mare, è cristallino, è favoloso. Al tramonto, sul ciotolato a bordo lago passa indisturbata una mandria di yak, ti fai un giro a cavallo di 3 ore per arrivare su una collina e vedere quanto è grande questo lago e non riesci a vederne la fine e concludi tutto, con la visita alla gher, del proprietario dei cavalli che ti ha accompagnato, per conoscere il figliolo di 6 anni intento a preparare le formine di yogurt da essiccare e, quando ti congedi, anche lui si concede una pausa, corre fuori e – letteralmente in volo – sale in groppa al cavallo, a pelo, e parte al galoppo.


Il deserto del Gobi è particolare, molto particolare. Per tanti, tantissimi chilometri è steppa ovvero sassolini grigi misti a sabbia, completamente in distesa piatta, dove spuntano solo minuscoli ciuffetti (5 cm circa) di erba/arbusti. Si arriva poi alle dune, non altissime ed imponenti, ma decisamente suggestive. L’incontro più bello, in zona, è quello con i cammelli battriani. Un muso che fa letteralmente uscire di testa e buca l’obiettivo nelle foto.  Il giro in cammello non si può perdere e si arriva fino alle dune, dove di prosegue a piedi. La scalata della duna più alta di Hongoriin Eels va fatta; è durissima, ma non la si può perdere. Avvertenza per la passeggiata a cammello: chi è un tantino magro e ha un pochino l’osso sacro sporgente, proteggere molto bene (con vestiti o altro) la zona, altrimenti (come la sottoscritta) ci si procura una abrasione da paura, che fa un male cane e dura giorni (per 5 giorni mi sono potuta sedere solo appoggiata ad un’anca!). In mezzo alle dune ci si può anche regalare una breve seduta di meditazione o di asana yoga, come abbiamo fatto io e Dania.
Poi, ci sono i  campi coltivati, i piccoli fiori che stentano a crescere nei terreni più aridi ma che, a volte, rivestono intere colline; ancora gli  alberi che si fanno beffa della sabbia del Gobi  e si stagliano in forme contorte nel cielo blu.
Siamo arrivati al cielo.


Il cielo dell’Asia è indescrivibile: non è solo celeste o blu intenso con il sole, ma anche nerissimo quando passano i temporali, le nuvole sono schizzi di panna montata che sembrano disegnate da un pittore, i colori dei tramonti vanno ben oltre il solito arancio, regalano il rosa acceso/rosso unito al turchese, al viola, al verde, al nero. Per non dire quando ti ritrovi davanti un arcobaleno nitidissimo nel bel mezzo di una prateria a perdita d’occhio (ti giri a 360° e vedi sempre questo bellissima e verde erbetta e solo, solo quello; dove finisce il verde inizia in cielo).


Di notte fa buio? In Mongolia no. La luna è quasi accecante, illumina qualsiasi cosa ed il gioco si fa surreale se si trova addirittura nel contesto delle nuvole, perché sembra un altro giorno. A volte, la luna è stata visibile per l’intera giornata. Ovviamente le stelle sono infinite e la volta stellata ti ricopre come ti trovassi in un contenitore tondo. L’alba è qualcosa di fulminante, lascia letteralmente storditi: puoi pensare persino di avere le traveggole! Ti ritrovi immersa nel rosa e nel celeste pallido, oppure ti si presenta davanti (alle 5,45 del mattino) una montagna rosso fuoco con abbarbicata sopra una luna piena, perfettamente tonda e più grande del sole.
I monasteri sono ben conservati, la vita quotidiana è autenticamente pervasa da un sano e genuino buddhismo; ogni tenda gher ha lo spazio dedicato al Buddha con le relative offerte (frequente la foto del Dalai Lama). I principali monasteri hanno interni ricchi, ma mancano i monaci, sono poco frequentati. Meglio i monasteri piccolini, magari con solo 8/10 monaci quando ti capita che due di loro sono bimbetti (7/8 anni a occhio) e ti imbatti nelle loro “prove” di preghiera con tanto di letture, mantra ed uso degli strumenti. Alcuni dei più piccoli, così come le rovine, sono collocati in posizioni magnifiche: vallate immense, piuttosto che “incollati” ad una montagna.
Ulaanbatar è brutta, assurda ma, alla fine, interessante. Una accozzaglia di tutto. Non che ci si aspetti una organizzazione urbanistica, ma neppure il buon senso! Palazzi a specchio che ospitano tutte le firme (stilisti) del mondo e ogni prodotto occidentale, mescolati alle costruzioni sovietiche (grigie, mastodontiche e tristissime), insieme a viuzze e casette in legno (tipo dacia russa) per i pochi agiati. Nella immediata periferia, si trovano gli accampamenti di gher dei nomadi che, perso il bestiame (a causa degli inverni freddi), lasciano la campagna e tentano – con risultati scarsissimi – la fortuna in città. Nel bel mezzo della città svettano quattro enormi ciminiere di una centrale a carbone, perennemente fumanti.
La città è inquinatissima e il traffico veicolare è degno di competere con quello del Cairo e New Delhi. Per i turisti offre tutto. Interessanti le visite fatte. Molto bello (per nulla turistico) lo spettacolo – tenutosi a teatro – di canti e balli tradizionali; si tratta dell’accademia nazionale di arte che viaggia ovunque con i suoi spettacoli e sono gli stessi che rappresenta ogni sera durante il periodo estivo.


Della popolazione mongola ho già detto un pò, soprattutto del loro atteggiamento incredibilmente ospitale e disponibile. Li contraddistingue anche una estrema varietà di etnie con caratteristiche somatiche estremamente marcate. Le popolazioni del sud sono decisamente scure di pelle, occhi molto a mandorla e nasi schiacciati (adattamento al vento/tempeste del deserto); quelle del centro corrispondono alla tipologia mongola più nota, quelle del nord arrivano fino alla carnagione quasi chiara, occhi chiari e più grandi, capelli anche biondi (del resto, la Siberia è vicina). Incontrare, in viaggio, i nomadi, così come visitare le loro gher ed essere loro ospiti (capitato in più occasioni) sono state occasioni uniche, irripetibili e che non riesco a descrivere in modo adeguato. Vivono in simbiosi perfetta con la natura ed i loro animali, infondono serenità, paiono impersonificazioni della saggezza, vivono anche in condizioni poverissime, ma sempre dignitosissime.
Il popolo delle renne era già rientrato, da giorni,  nei loro territori (inavvicinabili, se non a cavallo e con giorni e giorni di cammino) e lo sciamano pure. Ma la cosa non ha affatto disturbato e capirete meglio, tra poco, quando vi parlerò di Nerguit (l’autista che ci ha accompagnato anche nell’ultima settimana), visto che abbiamo potuto scoprire una persona più unica che rara!


Vorrei, così, finire con i nostri angeli custodi:
– la guida dei primi 15 giorni, Gansuk detto Ghana. 38 anni, professionalmente molto capace e persona deliziosa nelle relazioni, siamo entrati subito in confidenza ed abbiamo chiacchierato di tutto. Ci ha assistito al meglio, molto premuroso (a volte fin troppo), fino a che non ha capito che non ci saremmo “fatti del male”. Laureato in musica, ha studiato l’italiano – che parla bene e capisce benissimo – in Italia (7 mesi a Roma) durante il periodo universitario. Insegna musica e durante l’estate accompagna (da anni) i turisti. Profondo conoscitore degli itinerari seguiti, molto in sintonia con gli autisti (di sua grande fiducia e precedente lunga conoscenza), ci ha trasmesso molta conoscenza della vita nomade e delle tradizioni, non si è risparmiato in nulla. Resteremo in contatto per e-mail, anche per argomenti di suo interesse (energia da fonti rinnovabili, come progetto per il suo paese e per il quale ha trovato un valido conoscitore in Silvano che, per ragioni lavorative, anche di questi macchinari si occupa). Inaspettatamente ci ha “lasciato” l’ultima settimana in quanto, al rientro ad Ulaanbatar il 28.08, aveva la figlioletta di 3 anni da giorni con la febbre ed ha preferito restare in famiglia.
– la seconda guida (ultima settimana), Batzul. 26 anni, studente prossimo alla laurea, ma appassionato di arte (ha recitato a  19 anni in un famoso film mongolo, almeno così racconta, e sogna una carriera del genere); diversamente ha dichiarato di voler inventare una macchina che produca energia inesauribile secondo il principio del moto perpetuo. Mah! E dire che anche Leonardo già ci pensava e da allora ancora nessuno ci è riuscito, ma lui dice di sapere come fare. Ha studiato l’italiano a Milano (1 anno) come esperienza nel percorso universitario. Parla e comprende bene l’italiano. Quanto alle capacità da “guida/accompagnatore” meglio stendere un velo pietoso, assolutamente incapace. Ma non è stato un problema: dopo un giorno con lui, abbiamo capito come stavano le cose e ci siamo autogestiti, unitamente all’autista (Nerguit, la nostra garanzia assoluta). Come persona, comunque, molto cordiale e disponibile; in verità ci è “servito” solo per conversare e conoscere Nerguit
– autista jeep 1 (primi 15 giorni), non ricordo il nome. Persona eccezionale professionalmente (come vi ho detto prima) e deliziosa nei modi. Purtroppo, per i primi 15 giorni, dove eravamo in 8 totali (noi 5 + guida e 2 autisti) le relazioni sono state solo con Ghana e non abbiamo avuto modo di conoscerlo meglio
E finalmente arrivo alla mia “stella”: Nerguit (autista jeep 2). Durante i primi 15 giorni, come per il collega, non abbiamo saputo nulla, professionalità ed attenzioni a parte. Poi, ci ha accompagnato per la terza settimana. In verità già nelle prime, io e Dania notavamo cose particolari. Si fermava agli abbeveratoi per pescare acqua dal pozzo e riempirli per gli animali, era più attento di tutti alle persone che incontrava, dava una mano a chiunque, nelle visite ai nomadi era il più attento e si preoccupava di dare uno sguardo a tutti i componenti la famiglia,  faceva “rituali” strani in determinati luoghi (tipo: spargere granaglie o sassolini, bruciare arbusti, ecc….). L’ultima settimana, a partire dalla prima sera e visto che la nostra guida “offriva poco di interessante” è spontaneamente iniziata una conversazione “mediata” (da Batzul) con lui. Nerguit ha 57 anni (ben portati),  è sposato, ha 18 nipoti di cui due gemellini (ultimi arrivati) di 9 mesi. E’ nato da famiglia nomade in un non meglio conosciuto mese d’inverno, la madre l’ha partorito mentre accudiva le capre; la sua dichiarazione di nascita è stata fatto dopo molto tempo e la madre – non sapendo indicare – alcuna data ne ha fornita una a caso. Parla solo il mongolo, niente inglese e niente italiano ovviamente, ma parla con gli occhi, con il corpo, con i comportamenti. Come vi ho detto, è impressionante come ci si possa capire al volo, senza parole. Attualmente vive ad Ulaanbatar con tutta la famiglia. Sostanzialmente si occupa dei nipoti e  fa loro da autista durante il periodo scolastico. Ci ha confidato che continua ad accompagnare i turisti durante l’estate solo perchè la sua missione attuale di vita è garantire le risorse economiche per l’istruzione di uno dei suoi nipoti che attualmente ha 13 anni, cui è legatissimo. In passato ha fatto il cameraman. E’ stato lottatore fino a 33 anni, ha vinto molte competizioni, ha abbandonato per problemi al collo. E’ un autista/pilota e ha fatto corse in auto fuoristrada fino a pochi anni fa. E’ maniaco della sua auto che ha comperato ad Hong Kong e l’ha portata via terra a casa. Immaginate le conversazioni con Silvano ed i comuni interessi. Ma Nerguit è questo ed altro: è uno spirito illuminato, è una persona saggia, è una guida di vita. Ha scoperto molti anni fa, quando il suo primo figlio aveva 9 anni ed era gravemente malato, di avere delle capacità percettive degli stati di malessere tramite le mani e di essere in grado di curare anche alcune patologie, sempre con la propria energia.

Le modalità con le quali è emersa questa cosa sono state talmente naturali, senza alcuna ostentazione che sono assolutamente vere. La prova è stata che su mia richiesta, ha valutato il mio stato di salute e quello di Silvano e mi ha detto cose verissime che assolutamente non poteva né sapere, né intuire. Lui non si propone a nessuno per queste capacità, ma è conosciuto un po’ ovunque e abbiamo capito che durante le nostre soste ai campi, impiegava parte del tempo a disposizione per andare a fare visita a persone che gli venivano segnalate, solo per un suo “conforto” (così ha detto lui). Praticamente dedica la vita agli altri, in ogni forma, da questa appena descritta a qualsiasi attività manuale che serva. Siamo stati 1 giorno fermi al lago e, oltre a fare visita a numerose persone, ha riparato la bicicletta di una ragazzina e ha aiutato un pastore vicino a costruire un recinto. A Nerguit non si chiede; lui vede cosa occorre e si offre per un aiuto. E’ buddhista, ma nella forma più contaminata dallo sciamanesimo; i suoi riti – ci ha spiegato – non erano religiosi, ma solo propiziatori di buon proseguimento del nostro viaggio e sostanzialmente offerte agli Dei della natura. Ci ha fatto scoprire il tabacco da fiuto che lui conserva in una preziosa boccetta di onice e giada, ci ha insegnato un gioco mongolo realizzato con tessere in legno di ebano, ci ha fatto sentire “come lui”, per nostro grande onore. Nerguit è stato felicissimo di conoscerci un po’  meglio e si è molto rammaricato che questo non fosse iniziato prima; abbiamo parlato di tutto, anche di cose confidenziali. Devo dire che ci ha letteralmente adorato: la sottoscritta era la sua prediletta (detto da lui) fin dal principio, mi ha apprezzato per modi e capacità quotidiane dimostrate (sono sicura che Ghana gli traduceva buona parte delle conversazioni tra di noi, tra me e Dania in particolare), ha immediatamente capito  Silvano e ne ha rispettato  lo spirito schivo (dei primi approcci) nonché (dopo) condiviso gli interessi comuni  (i discorsi che hanno fatto, assolutamente da soli, sulle auto devo ancora capire come si sono realizzati, ma Silvano sa tutto della jeep di Nerguit e del suo passato da pilota), di Alessandro ha colto tanto la timidezza/introversione quanto le capacità cognitive.
Praticamente, Nerguit, è  il “gioiello” che ha impreziosito il nostro viaggio.


E’ stato un grande viaggio, fatto sia materialmente che psicologicamente. Mi resterà, per sempre, tanto di meraviglioso  da questa avventura.

 

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