Un viaggio intorno al mondo

di Laura Frasetto

Scoprire la bellezza di un viaggio lento e distratto – Malesia, Sud America, Oceania

 

Malesia

La Malesia mi è sembrata un’Asia da principianti: efficiente, dall’atmosfera barocca e gradevolmente eccentrica. Sono felice di averla scelta come prima destinazione per la scoperta di questo continente, visto che si tratta di un concentrato d’Asia, traboccante di tutto quel che ho sempre immaginato contenesse questo universo a me sconosciuto.

E’ una sorta di bignami orientale, dal prezzo allettante, i trasporti ben organizzati, i templi colorati; il posto ideale per viaggiare distrattamente con mio marito, mano nella mano, tra città esotiche e fondali magnifici.

Ho visitato pochi paesi con la distrazione che ho riservato alla Malesia. Probabilmente sono stati gli eccessi a scoraggiarmi: il buddismo mi sembra un intricato labirinto di fiori di loto, Buddha giganti e formule in sanscrito; l’islam malese appare un po’ bizzarro ai miei occhi, essendo solo una delle tante religioni che disegnano gli orizzonti di Kuala Lumpur, quando sono abituata ad associare questa religione all’immersione totale della società nella cultura musulmana; l’induismo lo percepisco come un incomprensibile tripudio di elefanti, caste e donne con pallini sulla fronte. C’è così tanto disordine culturale, in Malesia, che ho deciso di godermela restando fuori dalle cose, sulla loro superficie colorata e profumata di spezie, ascoltando con un sorriso i sikh, che nascondono coltelli nei turbanti e tutte le sere si impegnano a mettere a letto con ogni riguardo il loro libro sacro.

In Malesia ho scoperto che viaggiare distratti è fantastico.
Veniamo accolti cortesemente in ogni luogo visitato e contempliamo con leggero fastidio – non certo l’arrabbiatura che avremmo riservato in condizioni simili a un paese vissuto meno superficialmente – la devastazione degli incredibili fondali marini compiuta a Pulau Perenthian dall’arrivo del turismo di massa cinese. Cerchiamo di far entrare le due Petronas Towers in una sola foto, come milioni di viaggiatori prima di noi. Solo un leggero ribrezzo ci trattiene dal provare la fish SPA, cioè la pulizia dei piedi effettuata da un nugolo di pesciolini. Giochiamo con le scimmie di Batu Caves come i gruppi dei viaggi organizzati. Incredula, in una delle celebri grotte scorgo i “carretti” del Thaipusam; mi ricordo di quando ho avuto la fortuna di assistere a quella festa a Mauritius, fotografando i devoti che li trascinavano grazie a degli uncini conficcati nella pelle della schiena. Non sapevo che questo spettacolare festival si tenesse anche qui.
Sono contenta, però, di essere giunta a Batu Caves in un giorno normale, noioso, ordinario: le emozioni del Thaipusam ci avrebbero catapultato in un viaggio più profondo, più tagliente; ci avrebbero impedito di ignorare la complessità dell’induismo e di non chiedere altro che una lunga nuotata con delle enormi tartarughe prive di ogni forma di timidezza, in un’isola magnifica di cui – insolito per me – sono riuscita a dimenticare anche il nome.


Sud America

L’isola di Pasqua è uno strano brandello di Sudamerica intrecciato con l’Oceania. Nell’aria si respira quella poesia che impregna ogni angolo delle strade cilene: mi sembra di sentire il Neruda di Skarmeta raccomandare al suo portalettere con ambizioni letterarie di continuare a fare il postino, che è molto più originale in un paese dove tutti scrivono versi; oltretutto ti mantiene in forma. Sotto la patina onirica che ricopre l’isola percepisco quel magnetismo, quell’aria di ritorno del rimosso che ho già riscontrato nei luoghi dove vivono le popolazioni indigene dell’area polinesiana.
Se pure geograficamente ci troviamo sospesi tra la Polinesia e il nuovo continente, la percezione è quella di trovarsi soprattutto in America Latina, dove la gente sembra aspettare che la fine del mondo li travolga mentre stanno ballando (come canta Joaquin Sabina). Sia il paesaggio che gli isolani mostrano una vena d’isteria sorprendente.
Mio marito e io riceviamo un invito alla stranissima cena organizzata da un’artista pasquense: ci racconta di avere otto bambini, precisando però di non dimenticarsi di somministrare la pillola alla sua cagnetta, nel periodo dell’estro. Uno dei suoi fidanzati è un italiano che mi fa da interprete; ha circa quarant’anni, una figlia della mia età di cui non riceve notizie da almeno un lustro e ha trascorso i primi sei mesi della sua permanenza a Rapa Nui in una grotta dell’isola, “per ritrovare se stesso” (c’è riuscito, fortunatamente). A cena abbonda con il Pisco, perché il giorno successivo sarà l’imputato ad un’udienza penale presso il tribunale dell’isola: la sua ex compagna – una cilena – lo ha accusato di percosse. Le sculture della padrona di casa sono incantevoli e surreali.
Di giorno visitiamo i siti archeologici e i miei occhi si riposano alla luce subtropicale, più umile e pacata dell’esuberante riverbero equatoriale che è stato nostro compagno nel corso degli ultimi mesi. La sera ci facciamo trascinare volentieri a queste feste strampalate; resto affascinata dal parcheggio per cavalli che troviamo fuori dalla discoteca dove ci conduce qualcuno dei nostri bizzarri nuovi amici.

Non credo che al mondo vi sia un sito più poetico della fila di statue che danno le spalle al mare presso la spiaggia di Anakena, eppure ho l’impressione che vi sia un eccesso di artificiosità in questo spettacolo. I Moai così restaurati e in perfetto ordine sembrano un po’ dei postini travestiti da poeti.

Non incontriamo mai più l’italiano, misteriosamente scomparso dopo il processo.

Giriamo in moto su strade deserte e profumate di eucalipto, la pianta che infesta l’isola. I tramonti dietro le statue ci proiettano su un altro pianeta, perché sembra impossibile che sulla Terra le nuvole possano assumere una simile tonalità di rosso. Il realismo se n’è andato ed è rimasta solo la magia.


Oceania

Passeggiando per Pape’ete ho capito cosa intendeva Goethe, quando scrisse che “nessuno cammina impunemente sotto le palme, perché il proprio sguardo interiore si trasforma in un paese dove gli elefanti e le tigri sono di casa”.
A Tahiti imparo a scrutare l’orizzonte per ore, perdendo (investendo? Guadagnando?) quantità enormi di tempo, come fanno i polinesiani. Camminando sotto le palme apprendo a mangiare il pesce crudo, a riconoscere al primo sguardo i profili delle isole, a non contare su alcun tipo di trasporto pubblico e a non comprare generi alimentari d’importazione; mi sono allenata a camminare per chilometri e a svegliarmi all’alba. Non capisco perché molti viaggiatori si accontentino di una permanenza brevissima a Tahiti: è un’isola magnifica, profumata, ricca di sensualità e mistero.
Il mio compagno e io affondiamo i piedi nella sabbia nera di Pointe Venus, ammiriamo le cascate nella foresta incantata di Faarumai, assistiamo a funzioni religiose nel corso delle quali i tahitiani si vestono di bianco e intonano inni religiosi nella loro lingua; ci sembra di non averne mai abbastanza. Ci spingiamo fino alle selvagge Marchesi, ma è la dolcezza di Tahiti, te nave nave fenua, la terra deliziosa, ad aver plasmato la pittura del mio mito, Paul Gauguin.
Le isole mi insegnano soprattutto a non cercare instancabilmente di riempire i vuoti: se il pomeriggio è troppo lungo dopotutto è meglio così, ci sarà più tempo per contemplare lo scintillio del sole sulla laguna, o per grattarsi pigramente le punture di zanzara, o per chiacchierare con i propri tupapau, gli spiriti dei morti che ci stanno intorno. Se ci si sente soli non è grave, dal momento che si può rimediare facendosi un adorabile bambino. Arrabbiarsi per quello che non funziona (trasporto pubblico, sistema di smaltimento dei rifiuti e conseguenti roghi di materie plastiche, mancanza di prospettive e tristesse des iles che colpisce i giovani degli atolli periferici) è fiu, spossante e improduttivo.
Nel corso di questo lunghissimo viaggio non abbiamo visto elefanti e tigri, anche se nel piccolo tratto della laguna di Fakarava che per qualche giorno è stata casa nostra gli squali facevano merenda tutti i pomeriggi.
Giunti alle Tuamotu non mi aspetto più nessuna rivelazione; capisco solo che pedalare controvento in bicicletta è difficilissimo. Nuotiamo nelle lagune più variopinte del mondo e contempliamo le impronte da testuggine che le ginocchia e i piedini grassi di una bimba lasciano sulla spiaggia.

 

Ho capito che il viaggio è finito, perché non è rimasto nessun vuoto da riempire.

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