Il viaggio di Liz

di Lisa Mozzetti

Il giorno del mondo in una Poesia

 

Giorno, Sudamerica

Una piuma, che va, si libra nel vuoto.
Inizia il mattino di un giorno del mondo.
In un arido cielo tinto d’ocra che pochi volatili osan sfidare, fra canyon aguzzi e magri ruscelli ci son nidi di condor su cui planare.
Uova maculate scaldate dalla cova attendon il momento per schiudersi e scappare, saltare il precipizio, sfidare il tempo, capir la direzione che devono seguire.
Un uomo solitario percorre il suo sentiero, stretto e assai tortuoso senza spada ne destriero, solo un vecchio mulo a cui fare compagnia, amico inseparabile di nome nostalgia.
Esistono due modi di viver la giornata, puoi scegliere i frastuono dei viali sempre in festa, le arance lisce a terra e i limoni verde mare, le danze ininterrotte e il sapore dell’amore.
Palloni che rimbalzan oltre i muri dissestati, imponenti e bianche Chiese coi fedeli rifugiati, chi canta per dolore, chi grida di piacere, chi invece ha perso tutto e non ne vuole più sapere.
Oppur se ti ritieni un sensibile umanoide, prenderai certo la via delle nebbie più avvolgenti, scalerai ogni più arduo monte che si opponga al tuo volere, e tra resti mitologici e giardini sempreverdi noterai che non c’è altro da poter desiderare.
Visi corrucciati di enigmisti abbandonati, mani levigate dal freddo modellate, bocche screpolate che non parlan già da tempo, questi sono i Totem del solenne grande tempio.
I gran vagoni Cargo che percorrono le Ande, arrivan fino a Sud dove la ferrovia finisce, fra baracche di metallo e mari indiavolati, dove si dice “fuoco” ma in realtà ci son gelati.
Strade malridotte qui volgono alla fine, e non esiste asfalto ne linfa vegetale, solo grandi ghiacci bianchi che posson dissetare.
E quel piccolo condor dal grande becco adunco così lontano da quel canyon che apprensivo l’ha cresciuto, si perde nei cristalli assideranti e trasparenti, che fan mancare il fiato e congelano i viventi.
Comunque andrà a finire la giornata di ogni vita, ci sarà sempre una piuma che leggiadra e silenziosa, fra le montagne inermi volteggiando se ne andrà, e quello sarà il giorno che eterno impresso resterà.


Sera, Estremo Oriente

Ah, l’Asia.
In Asia ci vado la sera.
Dove l’asfalto ruggisce infuriato, dove gli aromi m’impregnano addirittura gi occhi.
Sì, gli occhi. Assorbono tutto.
Dal fumo carnoso di rose di pollo, a stille di frutti grondanti di vita, a polline fuso vagante nell’aria, che si posa, sulle mie ciglia e cammina.
Scorre fluente nelle mie vene, distende gli arti, placa i pensieri.
D’un tratto pioggia.
Quell’acqua calda è vapore fumante, è spirito giovane, è rombo possente.
Lesta sbatte su strade e viali, e allora gli aromi, fin lì quieti, come il finale d’una miccia impaziente esplodon ribelli.
Ed ecco sì, che sbotta l’Asia!
Le scarpe si sciolgono, i piedi tuonano, corro raggiante graffiata dall’acqua, e lascio una scia, dietro di me, composta da fiori colori e sapori, d’ambra screziata, d’oro colato, di tetti di templi e buddha osannati, di stoffe leggere, di pietre nere, di carretti crepati su cui sedere.
La sera d’Oriente non porta consiglio, semplicemente rapisce i corpi, e lascia l’anime vaganti nel buio, tra polveri gialle ed amache vuote.
Il cielo di ferma, si accendon lanterne, che uguali a falene ammaliate da muse si librano pallide in cosmi celesti, tra mari funesti ed isole mute.
Così mi ritrovo sola su una pianta, a rimirar le foglie che sinuose si nascondon;
cortecce inumidite si lasciano abbracciare, guance che si posano su mani affaticate.
Vedi, quando cala la sera sull’oriente, si parla solamente dell’effetto devastante, che cinge i nostri cuori e tutti i sensi a noi donati, lasciandoci all’oscuro coi pensieri accantonati.
I piedi divenuti un tutt’uno con la terra, si prostrano ad Est verso i grandi monumenti, quei muri chilometrici eretti dai sapienti, le statue circondate da possenti scalinate, i petali di Loto su acque consacrate.
Il tutto incorniciato da patina bronzata, che come un’avvolgente sensazione delicata, procura in me un bisogno d’assoluta adorazione.
E lì, io m’abbandono ad ogni mera sensazione.
Il crepitio d’un fuoco ormai spento, piastre ancor calde cosparse d’incenso, chicchi di riso dispersi nel vento, tende arricciate scucite dal tempo.


Notte, Oceania

Dove, dicono, si cammina a testa in giù.
E’ lì che di notte vado a dormir.
E’ lì che mi lascio dal buio accudire, terra di dingo e serpenti Reali, deserto rossastro coperto di rocce, cielo infinito senza orizzonte.
Nell’oscuro quaggiù prendon vita i colori, lucertole verdi diventan smeraldo, falò amaranto un tempo arancioni, legna che arde senza pastori.
Anziani con sguardi volti al passato e braccia maori per testimoniare, che un tempo anche loro son stati guerrieri, custodi segreti d’aria e di mare.
Giacciono qui le radici del mondo, scavando nell’outback più nero e profondo, dove rivivo le tradizioni, mangiando seduta con gli stregoni.
Dal fumo che scalda la torbida notte, si levan disegni che sanno abbordare i miei stanchi occhi ormai senza colore, che sotto le palpebre voglion sparire. Infin si chiudono, e s’abbandonano al dormir più pacato che Il Pianeta può offrir.
E lo sciamano intona un canto, un canto che penetra nel continente, ed è proprio ciò che permette alla gente di poter sperare nel giorno che viene.
Il canto va, striscia nell’onde, che leste s’infrangon in conche spumose, serpeggia all’interno dei vicoli verdi, costeggia steccati e tavole vuote.
Passa attraverso paludi sinistre ove belve feroci attendono quatte, fra passerelle di legni ormai marci e corde spezzate da fauci ignote.
Si leva solenne fra laute pianure ove i canguri vivono fieri, e salta con loro, si muove col branco, poi li abbandona e si tuffa nel reef.
Richiamata dal sordido tonfo, la fauna del Blu improvvisa una danza, coralli si uniscon ad alghe violacee, chiaman le perle sia bianche che nere, e con loro anemoni polpi e murene.
Come un’ombra senza materia s’affianca furtiva la tartaruga, ruba le note, e le trascina, nell’oscurità profonda e meschina.
Ma il canto poi, narra il saggio, sfugge al carapace della mite creatura per incontrar, sulla sua via, ben più grossi battiti viventi.
Ed ecco silente il pachiderma marino, la mente più nobile che si possa incontrare, la tacita balena ch’ingloba il canto, e in serenità mi fa risvegliare.
La notte ormai, volge al suo tramonto, ma ebbene io, sono ancora al Mondo.

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