di Francesca Vargiu
La casa è un via vai di persone . Sembra si stia organizzando una festa: nel grande giardino si monta un gazebo, ci sono cataste di sedie. E sembra ci sia un trasloco in corso. Si, qualcuno sta andando via, bagagli e pacchi da spedire ovunque.
– Io non torno in Europafrica senza il mio album di fotografie! Con quello sono arrivato e con quello voglio andare via! – dice Nonno EffeMaschio.
– Lo so, lo so, ma l’abbiamo cercato ovunque, non so dove sarà finito! Sono passati talmente tanti anni – risponde spazientita Nonna EffeFemmina.
I nonni hanno deciso di tornare in Europafrica, dopo tanti tanti anni di vita a testa in giù. Ormai hanno la loro veneranda età e non hanno più la pazienza di stare dietro ai nipoti e alle loro diavolerie, non si può pretendere da due persone di 110 anni. Non si ricordano nemmeno più cosa voglia dire essere ragazzi, sono passati troppi anni da allora per loro due. Cosi hanno deciso di salutare la famiglia e prenotare una bella casa di riposo col loro bungalow privato sul mare, in una zona tropicale nel sud di un’isola. Hanno sempre amato il clima caldo e vivere vicino al mare.
Quando sono partiti loro dall’Europafrica, il clima era molto diverso da ora, non c’era il clima tropicale lassù. Ma in 80 anni sono cambiate tante cose. Domani faranno una festa di saluto all’Australia, un Farewell Party, come si usava dire quando loro erano giovani. Per l’occasione tutta la famiglia si è riunita: figli, nipoti e bis-nipoti sono arrivati dai diversi angoli del pianeta per salutare i nonni. Ognuno da una mano come può: chi impacchetta, chi sistema il giardino, chi verifica le ultime carte col nuovo proprietario della casa. Tutti, tranne i bis-nipoti: in questo il mondo non è cambiato, anzi. E come d’uso da generazioni, i più giovani stanno a poltrire sul divano, mentre attorno la casa sempre posseduta dai demoni del trasloco e da quelli delle feste, con Bacco che comincia a fare capolino (e anche in questo, il mondo non è cambiato).
– Il nonno è proprio fuso, ormai. Continua a parlare di un album di fotografie senza il quale ha detto che non può partire, ma non ho capito bene cosa sono queste fotografie…tu ne hai idea?
– Io? e che ne so? Comunque si, è proprio andato. E la cosa peggiore è che pure la nonna gli va dietro ora. Insomma, almeno lei fino ad ora era sempre stata lucida.
– Poverini, brutta cosa fissarsi su qualcosa.
– …soprattutto se non esiste!
– Però vorrei capire cosa sono queste fotografie.
– Che poi la nonna ogni tanto comincia a parlare di cose che non ho mai sentito. Parla di Thailandia, di Argentina, del viaggio con lo zaino in spalla, dell’arrivo dall’Italia. Non ha senso.
– Ma tu lo sai cosa è l’Argentina? È un cibo? Perché italiano è una tipologia di cibi, questo lo so sicuramente.
– Non ne ho idea. Sarà un cibo, o gioco virtuale della loro generazione.
– Dite? Io appena li vedo glielo chiedo…
Il nonno entra nella stanza e borbotta.
– Allora avete trovato il mio album di fotografie?
– Nonno, ancora con questa storia. Non sappiamo cosa siano queste fotografie, come vuoi che ti aiutiamo?
– Porco canguro, ma dove sarà finito? Ricordo che l’abbiamo portato, quando io e la nonna siamo arrivati qui. State li seduti a fare nulla, aiutateci a cercarlo, piuttosto!
– Perché strilli? – dice Nonna EffeFemmina, che lo segue a rotta per evitare che si metta a disfare tutti i pacchi già chiusi e pronti da portare via – L’album l’avranno buttato, qui si butta via tutto, abbiamo cambiato casa cosi tante volte. Che peccato! C’erano le foto dei nostri viaggi…c’erano le foto dell’Argentina, della Cambogia, noi due in giro con lo zaino sulle spalle.
– Lo so, appunto. C’erano le foto della Cambogia, e quelle del Messico, e il trekking a Machu Picchu, e quelle della festa quando siamo tornati in Italia – risponde Nonno EffeMaschio. – Non è possibile che l’abbiamo potuto perdere.
– Ricordo che lo usavamo come libro delle favole quando i bambini erano piccoli…chissà dov’è finito, da allora…
Il bis-nipote più coraggioso prende la parola:
– Nonna, io non ho mai capito granché della vostra storia. Ma cos’è l’Argentina di cui parli tanto? è un cibo o un gioco di quando voi eravate piccoli?
Nonna EffeFemmina sgrana gli occhi.
– Un cibo? Ma è possibile che non sappiate cosa sia l’Argentina? – la nonna scuote la testa, delusa. – Ma cosa vi fanno studiare a scuola?
I nonni si guardano perplessi. I bis-nipoti pure.
– Forse vale la pena fare uno sforzo e recuperare un po’ di vecchi ricordi, che ne pensi?- chiede la nonna al nonno.
– Adesso, in mezzo al trasloco e ai preparativi per la festa? Per parlare a questi smidollati? – le risponde ironico il nonno.
– Beh, si. Come fanno a sapere cosa sia l’Argentina, se nessuno gliel’ha mai spiegato?- dice Nonna EffeFemmina rivolta ai bisnipoti – E poi sarebbe bello che conoscessero questa storia…
– Ma io devo cercare il mio album! – Il nonno sta zitto, incerto. Ma si vede che è tentato. Quale modo migliore del congedarsi dalla loro vecchia vita, prima della partenza, se non lasciare in eredità la loro storia alla famiglia? – Esiste ancora Google Maps?
– Gugol che? – chiede uno dei bis-nipoti, storcendo la faccia.
– Gugol Maps, quella cosa su Internet dove si potevano vedere le mappe di tutto il mondo.
– Nonno, ma di che parli? Siamo a Internet 325.0, tu sei rimasto all’archeologia! Se vuoi vedere le mappe possiamo usare questo coso di papà, è un po preistorico, ma per te andrà bene…magari ti ricorda il tuo Gugol Maps – ridacchiano i bis-nipoti infami.
Gli porgono uno specchio che si accende sfiorandolo, gli dicono che non ha bisogno di batterie, sfrutta il calore del suo corpo. Lo schermo visualizza il planisfero politico moderno. Ci sono solo 4 colori, una sola linea di confine, che separa l’Europafrica dalla Cina.
– Ah, il mondo, che belle emozioni! Vedete, quando eravamo giovani, io e la nonna abbiamo deciso di fare un viaggio un po particolare. Abbiamo deciso di fare il giro del mondo.
– Ma nonno, quello lo fanno tutti con la scuola, che noia! – protesta uno dei bis-nipoti.
– Si, ma quando l’abbiamo fatto noi non era cosi come adesso. Non c’erano gli aerei per andare da Melbourne a Pechino in un’ora. Ce ne impiegavi almeno 8 di ore. Per arrivare in Italia si faceva almeno un giorno di viaggio, con gli scali erano almeno 30 ore.
– Che noia, 30 ore in un aereo?
– Bé, in totale, ne dovevi cambiare almeno 2 o 3, di aerei, per arrivare. E i viaggi in aereo erano quelli più comodi! Il viaggio che avevamo deciso di fare noi era via terra, sulla strada, usando i mezzi pubblici, non le macchine. Gli aerei li usavamo solo per spostarci da un continente all’altro, ma all’interno del continente usavamo altri mezzi.
– Scusa nonno, ma allora Italia è un posto?
– Si era una nazione, era la nazione da cui venivamo io e la nonna.
– Ma ora non esiste più?
– No, ora non esiste più. – dice la nonna – Ora esiste l’Europafrica. Ed esiste l’Unione Americana, ma ai nostri tempi c’erano tanti stati che componevano questa nuova nazione. Noi abbiamo viaggiato nell’Unione Americana. Abbiamo visitato l’Argentina, il Cile, la Bolivia, il Perù. E poi nella parte più a Nord, Cuba, Messico, l’isola caraibica di Grenada, gli Stati Uniti, il Canada.
– Ma la parte Nord è pericolosissima, hanno delle armi micidiali, perché siete andati pure li? .
I bis-nipoti la guardano sgomenti, la nonna ride.
– Si, bé, ora è cosi, ma il mondo che abbiamo visitato noi 100 anni fa era un po diverso da quello in cui vivete ora voi. Abbiamo visitato anche una parte di quella che ora si chiama Cina. Prima la Cina era più piccola, e c’erano degli altri stati chiamati Thailandia, Laos, Vietnam, Cambogia. Noi li abbiamo visitati tutti.
– E noi prima come ci chiamavamo? – chiede uno dei bis-nipoti.
– L’Australia è sempre stata Australia, era talmente lontana e piena di animali velenosi che nessuno era interessato a conquistarla. Però il continente si chiamava Oceania, ora si chiama tutto Australia, anche tutte le isole dell’Oceano Pacifico.
Bene. Nonno EffeMaschio e Nonna EffeFemmina si guardano. Ma si, proviamo a raccontare ai nipoti questa storia.
L’avevano chiamata Flip Through The World la loro avventura, che significa sfogliare il mondo. Era stato un viaggio lungo 239 giorni attraverso le strade del mondo, senza nessun altro obiettivo se non capire qualcosa in più, cercando di sfogliare le pagine del pianeta una alla volta, lentamente. E per farlo, si erano spogliati di tutte le comodità quotidiane e avevano come compagno solo uno zaino di pochi chili. Per loro Flip Through The World era il desiderio di una vita che diventava realtà, , ma era anche la voglia e il punto di partenza per ricominciare a vivere in un modo nuovo.
– Vedete, i nonni facevano una bella vita, in quel posto che prima si chiamava Italia. – inizia a raccontare Nonna EffeFemmina – Facevano i manager, ossia i capi. Dei capi piccoli, non di quelli veri, grandi, importanti. Dei piccoli capetti, quel livello sufficiente per avere tante rogne e tante responsabilità. Vivevano in una città bellissima, la più bella del mondo, ma che per loro stava diventando soffocante. Caotica, trafficata, sporca, con un livello medio-alto di cafonaggine. La nostra nazione a quell’epoca era al centro degli attacchi della finanza globale, che aveva deciso di diventare ricca impoverendo quel paese. Ci sono riusciti, eh, se ci sono riusciti.– Sembra che la nonna asciughi una lacrima, ma forse è solo uno spiffero d’aria.
– Da ragazzi avevamo una passione enorme: viaggiare. Allora viaggiare significava andare a conoscere culture diverse, non come ora che ovunque si vada è tutto uguale, cambiano solo i parchi tematici, e quindi nessuno viaggia più per conoscere. E avevamo un sogno gigante: fare il giro del mondo. Non come lo si fa ora, in 4 ore. Lentamente, farlo il più possibile via terra, prendendo pochi aerei e tanti autobus e treni.
Cosi, quando capimmo che niente di importante ci legava in realtà a quella vita, e prima di essere circuiti dalle banche e convinti che fosse morale fare un debito di 40 anni per comprare una casa…bé, abbiamo deciso di partire. In fondo, che avevamo da perdere? Dei lavori poco gratificanti? Una finta sicurezza economica? Tutte cose a cui si può rilavorare, col tempo.
Le famiglie non erano tanto contente, e nemmeno gli amici. – ricorda nonna EffeFemmina- Erano tutti spaventati, perché pensavano che il mondo fosse pericoloso, perché era in corso una grande crisi economica, e avevano paura che non avremmo più trovato lavoro al rientro, e ci saremmo impoveriti solamente.
– Ma a noi non importava un fico secco di tutto questo. O meglio, ci fecero venire dei dubbi, ma decidemmo comunque di partire. – dice Nonno EffeMaschio – Cosi, un bel giorno di Dicembre, dopo un Natale di quelli che si usavano allora, con tanto cibo buono e grasso, mica come questi Natali salutisti di ora…dicevo, dopo un bel Natale in famiglia, come si usava allora, con tutta la famiglia riunita al tavolo a giocare a tombola…dopo questo Natale, prendemmo il primo aereo.
– Oh, ricordo perfettamente il nostro stato! Avevamo avuto tanti dubbi, nei mesi in cui preparavamo il viaggio! C’era voluto del tempo per convincerci di partire, per superare i nostri dubbi e anche le ostilità altrui. E poi ci dispiaceva stare lontani da casa per tanti mesi, non vedere le persone care, sai, hai sempre paura che possa succedere qualcosa e tu non sia li. Mica ci mettevi un’ora a tornare, allora! – sospira nonna EffeFemmina. – Ma appena siamo saliti su quell’aereo, tutte le paure si sono dissolte. Eravamo felici, sereni. Felici di aver preso una scelta guidata dai nostri cuori. Felici di esserci messi di nuovo alla guida del nostro destino, senza farlo guidare agli altri o al capitare casuale degli eventi.
Il nonno spreme le meningi.
– Viaggiavamo con lo zaino sulle spalle, avevamo dietro lo stretto necessario: due pantaloni, quattro magliette, 6 paia di mutande. Un piccolo PC per aggiornare il nostro blog di viaggio, un lettore di libri elettronici, i sandali e le scarpe da trekking.
– Io avevo qualche cosa in più rispetto al nonno – precisa nonna EffeFemmina – ma avevo dovuto rinunciare alla femminilità: quella nello zaino non ci entrava proprio! Ma riuscii a sopravvivere, e alla grande pure! Fu difficile scegliere cosa portare dietro. Vendemmo tutte le cose che avevamo in casa, tutti quegli oggetti inutili di cui eravamo circondati: realizzammo di poter vivere con la metà delle cose, fu una rivelazione per noi!
I nonni ridono, ricordando una vecchia asta in cui vendettero mezza casa…non vendettero la casa solo perché’ non era la loro. Altrimenti si sarebbero sbarazzati anche di quell’”oggetto”.
– Arrivammo ad Hong Kong, come prima tappa. Sapete, Hong Kong era una città inglese fino a pochi anni prima, ma a noi sembrò cosi asiatica, quella volta! Non sapevamo che rispetto a quello che avremo visto dopo Hong Kong era il posto più simile a casa, invece. Ricordo che la nonna fu sconvolta dall’odore.
– Odore, ma che odore! Era proprio puzza ragazzi. Un odore terribile. C’è da dire che, dovendo stare in giro per diversi mesi, avevamo un budget di spesa molto ridotto, quindi per dormire sceglievamo sempre i posti più economici. Abbiamo dormito in dei posti terribili, veramente terribili. Uno dei peggiori era un ostello in Thailandia, a Railay, dove le blatte rosse volavano nella sala da pranzo, mentre noi cenavamo. E il letto era una testimonianza archeologica degli ospiti che erano passati nella stanza prima di noi…una stratificazione disgustosa di peli e capelli. E poi un altro posto…dov’era…la notte che passammo al confine tra Thailandia e Laos, il villaggio minuscolo dove la barca si fermò la notte…
Gli occhi del nonno volano a ricordi lontani.
– Andavamo dalla Thailandia al Laos, a Luang Prabang. Avevamo deciso di fare il tragitto in barca, non col bus, e il viaggio durava 2 giorni. Un viaggio bellissimo, scivolando sul fiume lentamente. Attorno alle rive del fiume nulla, solo banchi di sabbia, vegetazione, e qualche piccolo villaggio. Ricordo ancora un gruppo di bambini fermo sulla riva laotiana, che guardava a aspettava. Avevamo una fotografia, l’avevamo intitolata “Gioventù insabbiata”. Ci sembrava che non avessero possibilità di uscire da li. Vedete, quei paesi erano molto poveri all’epoca, i bambini non potevano andare a scuola perché la scuola era a pagamento. Una cosa tristissima. Tutto era a pagamento, in quei paesi…erano paesi che avevano vissuto guerre molto recenti, e dittature.
– Uno degli impatti più forti fu la Cambogia. C’è stato un genocidio, milioni di persone sono state uccise da un regime criminale che voleva rifondare la società secondo i principi contadini, non corrotti dal capitalismo. E come al solito, i più poveri hanno pagato, e pagavano anche 20 anni dopo, quando siamo andati noi. Incontrammo un ragazzo che quando era bambino aveva vissuto tre mesi nella giungla: il regime aveva evacuate tutte le città’, la gente era dispersa nella giungla e nelle campagne, senza cibo. I più fortunati riuscirono ad entrare in Vietnam, e poi ad avere un visto da rifugiati da qualche paese occidentali. Poterono cominciare una nuova vita, e tornare in patria una volta caduta la dittatura.
La nonna si sistema il cuscino dietro la schiena, e continua a raccontare. Sembra ringiovanita, sembra tornata la ragazza che girava con lo zaino, solo con qualche riga in più.
– Ricordo che ci aveva stupito il passaggio dal Vietnam alla Cambogia, ricordi? Siamo entrati da Saigon, attraversando il Delta del Mekong. Dalle risaie del Vietnam, campi enormi di riso, e dalla campagna verde, alla Cambogia secca. Risaie secche, non coltivate, argini e canali di irrigazione abbandonati. Una tristezza, uno spettacolo struggente.
– Io ricordo benissimo il Vietnam. – Interrompe il nonno- Ti ricordi i contrasti del paese, che ci avevano lasciato a bocca aperta? Mi ricordo che lo trovammo un paese sbilanciato, lo definimmo cosi, un tremendo contrasto. Un paese comunista ma capitalista. Ci lasciò a bocca aperta. L’unico paese comunista dove la scuola e la sanità erano a pagamento, non pubbliche.
– Già, ben diverso da Cuba, effettivamente. A Cuba la maggior parte delle persone che incontrammo erano molto istruite. Il tassista era medico, o magari un ingegnere, o un professore. Avevano tutti lasciato i loro veri lavori per lavorare nel turismo. Sapete, dal turismo arrivavano tanti soldi, si guadagnava in un giorno quello che un medico statale guadagnava in un mese. Era molto triste per noi assistere a queste cose, alla parte formata della società che per campare meglio rinuncia alla cultura. – Nonna EffeFemmina sorride- Sceglievano la strada del denaro, in un paese che per noi era l’emblema della Rivoluzione contro il capitalismo. E la sceglievano perché avevano voglia di essere anche loro ricchi, di essere come tutti i turisti che arrivavano nel paese: bei vestiti, i soldi per viaggiare per il mondo. Non riuscivano a credere che da noi non fosse tutto idilliaco, non riuscivamo a convincerli di questo. A Cuba, il capitalismo sembrava la cura del male chiamato povertà.
Mentre i nonni raccontano, la casa ha rallentato il suo ritmo, il gazebo è stato montato, e le sedie ordinate attorno ai tavoli in giardino. Altri componenti familiari si sono aggiunti ai bis-nipoti, attorno ai nonni si è formato un piccolo gruppo di persone. La nonna è in splendida forma, il racconto è fluente, sembra parli di qualcosa successo la settimana prima. Continua:
– Vedete, quando noi siamo partiti, quando noi eravamo giovani, si parlava tanto di globalizzazione. Voi ora non vi ponete più questo problema, per voi è tutto uguale, non vi ponete il problema che possa esistere il “diverso”. Voi nemmeno sapete come si chiamano i paesi dall’altra parte del mondo, voi usate i nomi commerciali che li definiscono. Invece quando noi eravamo giovani per noi era un pericolo che tutto il mondo stesse andando verso un modello unico, dove tutti mangiano le stesse cose, vestono nello stesso modo, ascoltano la stessa musica, guardano gli stessi film e le stesse trasmissioni televisive. Per noi era un pericolo gravissimo, voleva dire perdere le culture proprie di ognuno, per abbracciarne una che non era di nessuno, ma era artificiale. E viaggiando avevamo capito meglio cosa volesse dire, questa globalizzazione.
– Verissimo, brava. – continua il nonno- Da Cuba al Laos, la gente aspirava ad avere quell’abbondanza di cose che invece aveva spinto noi ad andarcene, a cercare un altro modo per vivere. È buffo, no? Chi ha l’abbondanza, la rifiuta, ne vede i limiti. Chi vive nella povertà, è disposto a tutto pur di possedere qualcosa. Mi ricordo le capanne con dentro le televisioni da 38 pollici, allora erano moderne. Dentro una capanna, capite? Persone che non avevano nulla, la cui casa poteva essere spazzata facilmente da una normale piena di stagione, avevano fatto i debiti, o comunque i sacrifici, per comprare una televisione, e poter guardare gli stessi programmi che guardavano i ricchi, per sentirsi ricchi anche loro. La TV portava democrazia sociale! A Cuba, i medici smettevano di fare i medici per diventare tassisti, camerieri o aprire un Bed & Breakfast, per poter comprare oggetti elettronici
– Be, a Cuba anche per comprare del cibo più decente… – corregge la nonna.
– Hai ragione. Fu una grossa delusione per te, vedere che la rivoluzione che avevi tanto ammirato, si era risolta nella tensione al capitalismo, vero?
– Oh se fu una delusione! Erano riusciti a passare dallo slogan “O socialismo o muerte” alla morte del socialismo. Non trovammo più nulla di socialista, a Cuba. La scuola e la sanità pubbliche, ma per noi che venivamo dall’Europa quello era normale, non ci sembrava niente di straordinario, niente di socialista. I cubani non potevano andare nelle spiagge delle isole senza un’autorizzazione, le spiagge erano di proprietà degli hotel, i quali erano proprietà delle gerarchie militari. C’era una moneta diversa per i cubani, e chi lavorava per lo stato veniva pagato in quella debole. Noi la capivamo la disperazione di quelle persone, ma non potevamo accettare che il capitalismo potesse essere la soluzione. Lo stesso capitalismo che stava riducendo in macerie il nostro stato sociale.
– Diciamo che questo è stato un forte impatto in un sacco di paesi. Praticamente in tutti i paesi più poveri abbiamo vissuto la stessa sensazione. Loro correvano verso il nostro modello, noi non sapevamo più dove correre, invece. Mi ricordo quando siamo arrivati a Bangkok dal Sud della Thailandia. Ci aspettavamo la Thailandia, invece abbiamo scoperto una città con un cielo cupo, col sole coperto dall’inquinamento. Macchine e motorini, un rumore assordante di sottofondo, anche la notte. Un incubo. Un incubo di neon.
Il nonno sospira. – Ci mancava il cielo, a noi che non eravamo più abituati a vederlo dalle nostre città. Infatti siamo stati col naso in su a cercare le stelle ogni volta che eravamo in quei posti isolati, dove il cielo non era ancora stato rubato dalle luci.
Ricordo un cielo stellato meraviglioso sulle Ande, in Bolivia, nel Parque Nacional Eduardo Avaroa . La Croce del Sud di fronte, la Via Lattea nettamente definita. Faceva un freddo assurdo, fuori eravamo a meno 10, e dentro la stanza a 0 gradi. Ma non riuscivamo a staccarci dal guardare quel cielo meraviglioso. Ero scioccato da quante stelle ci fossero, e dal fatto che io non me ne fossi mai accorto. Non avevo mai immaginato che il cielo potesse avere quella profondità, che ti potesse dare il senso dell’infinito, con le stelle più luminose in primo piano, e le altre milioni sullo sfondo.
Chiude gli occhi. Forse sta cercando di ricordare quelle stelle. Sicuramente le ricorda bene, perché sorride compiaciuto.
– Un altro cielo bellissimo l’abbiamo visto in Nuova Zelanda. -ricorda la nonna- Anche li, freddo da morire, noi stesi sul prato: a testa in giù, e col naso in su. E quello alle Similan Island, in Thailandia. Un Parco Nazionale fatto di piccole isole sperduto nel Mar delle Andamane, nella costa ovest della Thailandia. Un’acqua incredibile, 30 metri di visibilità. I colori poi, qualcosa di indimenticabile. Penso di aver capito li il significato della parola turchese.
– Be, devo dire che il mare che abbiamo visto in quei mesi è sempre stato indimenticabile. Dalla Thailandia al Messico, Cuba e l’isola caraibica di Grenada. Il mare dei tropici è un’altra cosa rispetto al nostro mare. Il mare azzurro, smeraldo, turchese, la spiaggia bianca, una polvere, e la vegetazione che arriva sulla spiaggia, col suo verde assoluto. Penso che abbiamo capito cos’è il verde, oltre al turchese.
– Il verde dei tropici è acceso, è vita. Non è come il verde di un bosco di pini, o di querce, che pure nella loro bellezza rimangono…come dire..opachi? Invece il verde tropicale è luce, luce assoluta, ti abbaglia
– L’Amazzonia, che sogno arrivarci. Allora non era un parco tematico pieno di alberi, era una foresta enorme, era il polmone verde del mondo…prima che cominciassero a costruirci. Ci arrivammo da La Paz, in Bolivia, con un aereo terribile che ha ballato sopra le Ande per un’eternità. Guardavo il giubbotto salvagente, e le rocce che stavano sotto di noi, e mai come quella volta ho capito quanto sia inutile quel coso. Abbiamo preso una barca, siamo arrivati nel cuore della foresta, abbiamo dormito in una piccola radura, in un bungalow fatto con il legno degli alberi che prima occupavano la radura. Un po crudele, se ci pensi. Però magnifico. Tu e la giungla. Li capisci che l’uomo non è che uno degli esseri viventi di questa terra, sottoposto al ciclo di vita e morte come tutti gli altri. Abbiamo camminato di notte nella foresta, incontrando il serpente a sonagli, le impronte del giaguaro, i coccodrilli…capisci che la tecnologia, li dentro, non serve a nulla. Sei preda e predatore, fai parte del ciclo naturale, non guardi e non cammini con un punto di vista privilegiato.
– Quanta paura quel giorno! – dice la nonna. Ride. – Ricordo che mi attaccai come una sanguisuga alla guida. Avevamo gli stivali di plastica alti, fino al ginocchio, perché camminavamo nel fango. A me stavano grandi, ogni passo nel fango rischiavo di lasciarli li. Ricordo anche che mi ribaltai in un torrente, meno male che non c’era l’anaconda ad aspettarmi sul fondo…
– È vero, tu morivi dalla paura!. – ridono insieme- Quanto ci siamo divertiti! A parte la nonna che temeva di morire, ovviamente. Abbiamo conosciuto tantissime belle persone. Tanti viaggiatori come noi, ma anche persone del posto, i famosi locali. In Asia era difficile incontrare i locali, perché per via della lingua eravamo costretti ad esprimerci in inglese, e quindi avere sempre a che fare con persone che lavoravano nel turismo. Ma in Sud America la musica cambiò, ah come cambiò!
– Parlando spagnolo scoprimmo il contatto con le persone. In Argentina bastava nulla per cominciare a chiacchierare. Le persone erano solari, allegre, avevano voglia di comunicare, erano curiose di sapere da dove venissimo, perché fossimo li, le nostre idee sul loro paese.
– In Cile, in Bolivia, in Perù, in Messico, potevamo chiacchierare con la gente per strada, nei negozi. Potevamo fare domande sulla storia recente, discutere di politica, commentare i risultati delle recenti elezioni, farci raccontare leggende e tradizioni, conoscere da vicino la loro cultura. Ci sentivamo partecipi, e capivamo. Capire, era una sensazione bellissima. Sentirsi raccontare la dittatura cilena dalla figlia di un iscritto al partito comunista, salvo grazie a un piccolo atto di grande coraggio, ma che vide tutti i fratelli costretti all’esilio. Vedere i boliviani che prima di bere dalla bottiglia di birra ne versavano un poco per terra, in onore alla Pachamama, madre terra. Non eravamo li solamente per vedere bei posti, eravamo li per capire!
– Fu lo stesso in tutto il Sud e Centro America, tutti i paesi di lingua spagnola che visitammo. Ma l’Argentina più di tutti. Ecco perché mi sentite spesso parlare dell’Argentina! – la nonna ride, e continua- Mi ricordo la famiglia che si ospitò a Mendoza, che ci raccontò del paese, della crisi economica, di come era stato difficile vivere in quel periodo, e noi rivedevamo nelle loro storie quello che poteva accadere a noi da un momento all’altro, nel nostro paese. Ci prepararono l’asado domenicale, l’arrosto sulla griglia, una specie di barbecue. Ci trattarono come dei figli. Noi cucinammo per loro la pasta alla carbonara: ci piaceva, quando eravamo ospiti da qualcuno, cucinare per loro per ricambiare l’ospitalità. Fu bellissimo, tempo dopo, incontrare nuovamente una delle loro figlie. Si era trasferita in Italia per lavoro: ci eravamo salutati dicendoci “Il mondo non è cosi grande”, e il caso ci aveva fatti incontrare di nuovo!
– Alla fine di un viaggio del genere, quello che ti resta di più sono le persone incontrate. Sono come una rete che contiene tutto il resto. Cominci ad associare a loro i paesi. Perché è vero che un incontro non può farti capire un paese, ma sicuramente incontrare una persona “normale” può aprirti uno spazio in più che nessuna guida turistica potrà darti. Per un po vedi il loro mondo attraverso i loro occhi, e li cresci. – riflette il nonno. – In Australia eravamo stati ospiti di una signora di Sydney, Merrylin. Una persona fantastica, che appena arrivati da lei ci consegnò le chiavi di casa sua. Noi, perfetti sconosciuti. Una lezione di vita fenomenale. Da lei, e in viaggio, abbiamo imparato che le persone al mondo sono più propense ad aiutarti che a fregarti. Che non puoi, a causa di un 1% di gente cattiva, dubitare ed aver paura del restante 99%, devi imparare a fidarti. Fu una lezione di vita importantissima, per noi abituati a stare chiusi nel nostro mondo, difendendoci da tutto e tutti.
– Merrilyn era un’australiana, una ex-ricercatrice universitaria che viveva sei mesi in Australia e sei mesi in Sicilia, una bella isola dell’Italia. Aperta, molto attenta all’ecologia e all’eco-sostenibilità, molto colta, una grande viaggiatrice. Fu subito amore, per noi. Ci introdusse alla storia degli aborigeni d’Australia. Erano passati due secoli, dalla fondazione della colonia, e gli aborigeni rimanevano una ferita aperta. Avevano il diritto di voto da pochi anni, per lungo tempo non avevano avuto la cittadinanza. Capite, nel loro paese, non avevano la cittadinanza! Ancora una volta, un popolo decimato e una cultura spazzata via dalla colonizzazione europea. Ci siamo resi conto, nel nostro viaggio, che la crisi che aveva colpito la vecchia Europa era nient’altro che la fine di un ciclo storico. Un ciclo in cui noi europei ci eravamo divertiti ad andare in giro per il mondo a schiavizzare altri, importare la nostra cultura distruggendo quelle altrui, divertirci a fare i padroni del mondo. Non eravamo in un ciclo di crisi-ripresa, eravamo semplicemente al nostro declino, con altre culture, più vitali e giovani, pronte a prendere lo scettro del comando. In fondo, era da più di 500 anni che ci divertivamo a fare i padroni del mondo, doveva finire prima o poi, no? – la nonna sorride, ironica. Sa che la storia le ha dato ragione
– Tantissimi posti che visitammo erano stati “scoperti” in anni relativamente recenti. Viaggiando ci rendemmo conto che anche la parola “scoperta” era parte della stessa presunzione di superiorità con cui le culture occidentali avevano conquistato e sterminato culture antiche di migliaia di anni. Gli esploratori ed i conquistadores occidentali avevano avuto la presunzione di scoprire luoghi, fiumi, laghi e foreste che erano abitati o già conosciuti dalla gente del luogo. Avevano avuto la presunzione di dare il proprio nome a cose che un nome già lo avevano: i fiumi della Nuova Zelanda, le montagne argentine ed australiane, le città messicane, le spiagge cubane erano stati ribattezzati con nomi moderni che non dicevano nulla delle antiche popolazioni che li avevano chiamati in un altro modo per secoli, forse millenni.
– Per esempio, Angkor Wat si dice sia stato scoperto da un esploratore europeo. Al limite era stato riscoperto, perché fino a quando questo signore non ci era incappato per caso, il posto era conosciuto dalle genti della zona, che non si erano mai posti il problema di fare turismo in delle località che loro consideravano rovine! Lo stesso a Machu Picchu: quando la spedizione europea arrivò a Machu Picchu, ci abitavano due famiglie! Non avevano scoperto nulla, avevano trovato qualcosa che qualcuno conosceva già.
– Il mondo ci si apriva di fronte, capimmo che se hai voglia di starlo a sentire, invece di correre, ha tanto da dirti. Io non sono mai stata una persona credente, viaggiare mi aveva spalancato gli occhi davanti alla spiritualità. Soprattutto quella asiatica. Anche in Sud America e a Cuba c’era tanta spiritualità. Soprattutto gli indios: il rapporto con la Pachamama, la loro religione particolare, un sincretismo di vecchie credenze e cattolicesimo. Molto interessante. Ma in Asia, la spiritualità buddista ci sembrava quasi palpabile, ci sembrava si respirasse per strada. I canti dei monaci laotiani all’ora della preghiera, in un tempio in cui il tempo ha lasciato delle tracce evidenti. I monaci poco più che bambini, con le loro vesti arancioni, le teste rasate, le facce curiose.
– Avevamo scoperto che spesso diventare monaci è un modo per andare a scuola e istruirsi: alcuni ragazzi iniziano a studiare per diventare novizi già all’età di 9 anni. Così i monasteri sono pieni di monaci giovanissimi, che camminano in gruppo come dei normali adolescenti, ma che con le loro tuniche arancioni e i capelli rasati a zero. E’ una vita difficile, fatta di privazioni, di lontananza dalle famiglie, ma spesso è l’unica via per guadagnarsi un’istruzione. Ne incontrammo alcuni, in diversi monasteri, e ci piaceva fermarci a chiacchierare. Loro avevano bisogno di praticare l’inglese, noi avevamo bisogno di capire il buddismo.
– Passaste anche dall’Australia, quindi? – osa intervenire uno dei bis-nipoti, quello che pensava che l’Italia fosse solo un tipo di cucina
– Si. Fu bizzarro. – dice la nonna – Australia, questo mondo strano dove la cosa più antica aveva 150 anni! Noi, che vivevamo nella città eterna, dove il monumento più antico ha 2000 anni!- Ride. – Vi immaginate la mia faccia, io che vivevo a Roma, abituata a vedere il Colosseo, dopo aver visitato i templi di Angkor in Cambogia del 1200 DC, dopo i templi di Ayutthaya e Sukhothai in Thailandia…anche ciò che per gli australiani era antico, per me era modernità!
– La storia degli aborigeni australiani ci aveva scioccati, ed arrivare in Nuova Zelanda e trovare il Maori come lingua ufficiale fu ancora più scioccante. Due nazioni vicine, arrivate a due punti completamente opposti. Un popolo autoctono annientato, l’altro che riesce a riconquistarsi dei diritti, primo fra tutti quello alla proprietà della terra. Una bella storia. Il paese conserva il suo nome Maori, Aotearoa. Un paese rurale, tranquillo, denuclearizzato.
– Di tutti i paesi in cui viaggiammo, è quello con la più grande varietà di paesaggi. In un unico viaggio in macchina potevamo passare dalle vallate vulcaniche piene di verde al deserto, poi l’alta montagna, la foresta sub-tropicale,le rocce a picco sul mare, spiagge nascoste, il mare blu, i pascoli per le pecore, un vulcano attivo. Di tutto, una varietà impressionante nel raggio di poche centinaia di Km, una natura che conservava la sua interezza, la mano dell’uomo si vedeva ancora poco. Chissà se è ancora cosi, laggiù!
– I tatuaggi che tanto vi fanno ridere li abbiamo fatti in Nuova Zelanda. Sono dei tatuaggi Maori, si chiamano Ta Moko. L’artista che li ha fatti era di origini Maori, era un misto di colonizzatori e Maori. Quello che oggi è la Nuova Zelanda. Ogni tatuaggio ha un significato, che è espresso tramite i motivi Maori. È come avere una piccola opera d’arte sulla pelle, un disegno unico che ti rappresenta. Abbiamo spiegato noi all’artista cosa volevamo rappresentare, e lui ha disegnato sulla nostra pelle, liberamente. Una bella forma d’arte, no?
Il nonno scosta il colletto della camicia, e si intravedono degli strani disegni sulla sua pelle. La nonna non deve scostare niente, il suo pezzo d’arte, sbiadito dal tempo, è li, sulla caviglia, a vista di bis-nipoti.
– Quanta povertà abbiamo visto! – ricorda la nonna- Noi che venivamo da una vita agiata, piena di cose, noi che avevamo una casa piena di oggetti inutili, trovarci di fronte alla miseria assoluta.
In Perù ci fermammo più del previsto per fare del volontariato. Lavorammo per un’associazione che organizzava un dopo-scuola per bambini. Erano bambini che provenivano da famiglie poverissime, abituati alla violenza, anche fisica, e all’alcool. Bambini abituati a sopravvivere.
– La scuola aveva come obiettivo primario quello di offrire, per qualche ora al giorno, un esempio di adulti non violenti, un esempio di modo di vivere alternativo, costruendo un ambiente in cui ci sono delle regole precise, che tutti, alunni e professori, sono tenuti a rispettare, ma un ambiente in cui sia l’amore per il prossimo a prevalere su ogni regola.
– Dare loro delle regole era un modo di contrastare la società dove i bambini vivevano, in cui l’unica regola era la sopravvivenza, in nome della quale si può violare ogni legge e regola civile. Noi volontari venivamo da paesi diversissimi, Europa, Stati Uniti, Australia, Argentina: i bambini capivano cosi cosa volesse dire che nel mondo ci sono tante e diverse culture, esercitando ogni giorno il principio di uguaglianza e di rispetto della diversità. – La nonna si emoziona, al ricordo- Fu un’esperienza meravigliosa. Ce ne andammo con la sensazione di aver preso, da quei bambini, più che dato. Ricordo ancora il loro affetto, la loro apertura: ti aprivano il cuore. -La nonna si commuove al ricordo.
– I bambini sono quello che tocca sempre di più, perché nei loro occhi le ingiustizie si vedono amplificate. I loro paesi aspiravano a un modello di vita migliore, ma invece di trovare una nuova ricetta di sviluppo, copiavano quelle vecchie occidentali, auto-condannandosi al disastro: i poveri erano sempre più poveri, e il futuro di quei bambini seriamente a rischio.
Il nonno fa una sosta, prende un bicchiere d’acqua. Non sembra stanco, anzi, Sembra lucido, era da tanto che non era cosi in forma. Continua a raccontare.
– In Perù arrivammo in un posto meraviglioso, un lago a 4000 metri di altezza, il Lago Titicaca. Un cielo azzurro da far girare la testa, un’aria limpida, frizzante, una luce assolutamente perfetta. Dormimmo in delle isole sul Lago. Il lago era considerato sacro da una popolazione locale, che venne annientata durante la colonizzazione: si pensava che qui fosse nato il dio sole.
Nessuno armeggia più con i pacchi, la famiglia è rapita dal racconto. Figli, nipoti e bis-nipoti si sono seduti un po’ ovunque, ad ascoltare i due mammut che raccontano di tempi lontani. La nonna continua a raccontare.
– La vita da queste parti era sempre andata avanti grazia alla pesca sul lago e all’agricoltura, ma quando arrivammo trovammo delle comunità dedite più’ al turismo che ad altro. Come vi dicevamo prima, ci piaceva viaggiare e studiare, e scoprire gli impatti della globalizzazione. Nella follia del mondo globale, la crisi economica in Europa e nel Nord Americ aveva diminuito i soldi alle persone, che quindi viaggiavano di meno. Quindi diminuirono i turisti, e la crisi arrivò anche nel bel lago a 4000 metri, a chilometri e chilometri di distanza dalla crisi vera. Era assurdo, no? I muti sub-prime e le famiglie di Amantani, che non dovrebbero avere niente a che vedere, si trovavano invece nello stesso circolo.
– Saperi antichi si perdevano, gli abitanti diventavano come noi, incapaci di sopravvivere nel proprio ambiente con mezzi di sostentamento semplici. – dice il nonno. – Mi faceva rabbia! Faceva tristezza vedere che il pannello solare serviva per ricaricare le pile per vedere la tv la sera… ma in fondo che diritto avevamo noi di giudicare il loro desiderio di vedere la tv? Perché noi dovevamo poter vedere il Grande Fratello e le schifezze che passavano (e passano) in tv, e loro no?
– Ancora una volta, in quell’angolo di paradiso, ci chiedevamo da che parte pendesse la bilancia del turismo, se dalla parte dei benefici per le comunità rurali o dalla parte della distruzione di una cultura antica. Eravamo combattuti: da un lato il dispiacere per le culture che morivano, lentamente, per fare spazio alla cultura del nulla e di nessuno….dall’altro ci accorgevamo che… non è forse razzismo anche il pretendere che gli altri continuino a vivere in modo ancestrale, mentre noi siamo liberi di usare la nostra tecnologia? Noi due ci guardavamo e ci dicevamo: ci dev’essere un modo per accedere alla tecnologia e allo “sviluppo” senza cadere negli orrori occidentali.
– Ci dicevamo: come possiamo aiutarli ad andare verso il futuro, vivendo come uomini di questo millennio con acqua, elettricità e Internet, salvando le tradizioni e senza diventare una succursale straniera? Dalla Thailandia alla Cambogia al Perù il problema pareva essere sempre lo stesso: assenza di un modello sociale innovativo e rivoluzionario, che coniugasse tradizione e progresso. Sembrava che la strada obbligata fosse quella del neon e dell’hamburger. Era troppo brutto per poterlo accettare serenamente, ecco, tutto qui! – ride il nonno.
Anche la nonna ride.
– Da quello che abbiamo raccontato finora sembra che abbiamo viaggiato solo per fare uno studio sociologico! – dice ridendo nonna EffeFemmina – Ci siamo anche divertiti, oltre a soffrire come dei matti vedendo certe realtà. Si, diciamo che abbiamo viaggiato col cuore, prima di tutto. Col cuore e con la testa, sempre tesi entrambi a captare umori, a capire, a studiare. Abbiamo fatto poca vita sociale da turisti, diciamo Non abbiamo fatto guadagnare tanto ai bar sulle spiagge per turisti, o ai pub dove i backpacker andavano a sfinirsi di birra.
– Penso fosse dovuto anche alla nostra età. Non avevamo 20 anni, non eravamo partiti per darci alla pazza vita, ubriacarci ogni sera, fare tardi la notte in albergo od ostello. Tutto questo l’avremmo potuto fare con molto più stile, e soldi, restando a casa. – dice il nonno- Viaggiavamo low cost, l’alcool era un lusso destinato ad occasioni speciali! Io contrattavo sul prezzo ovunque, per risparmiare. Abbiamo contrattato su tutto, dal dormire al cibo, dal costo dei taxi al noleggio dei mezzi, dalle escursioni guidate allo scuba diving.
– Eravamo partiti per conoscere il mondo, ed eravamo proiettati a fare quello, risparmiando il più possibile – dice la nonna- Però chiaro che trovavamo anche i nostri spazi leggeri e allegri, i nostri spazi da turista che vanno in giro per i posti più famosi. Se erano tanto famosi, in genere una ragione c’era!
– Bé, si. C’è un motivo perché Las Cataratas de Iguazù in Argentina sono considerate una meraviglia del mondo. Perché posti come Angkor Wat, Machu Picchu, Chichen Itza erano pieni di persone. Penso che uno dei grandi incontri che abbiamo fatto in viaggio, c’é quello con la natura. La natura selvaggia, aspra, indomabile. L’Amazzonia, la Patagonia e le Ande, il vero trionfo della natura.
– Toccammo con mano l’infinito, in Patagonia. Infinito degli spazi: ai confini del mondo, era difficile capire dove finisse l’orizzonte. Lo spazio era talmente grande che l’occhio doveva mettersi a cercarla, quella linea necessaria per circoscrivere i limiti del mondo, per noi abituati alle cose piccole. Per noi abituati a misurare tutto. Ma li era un’altra cosa…E infinito del silenzio. Non un battito d’ali, un uccello che cinguetta. Silenzio, assoluto, e assordante: pensavi di essere sordo, invece era il mondo attorno a te che aveva smesso di parlare nel linguaggio convenzionale. – La nonna vaga con gli occhi sulla cartina – Un tramonto alla fine del mondo, sulla baia di Ushuaia. I fiordi della Patagonia cilena e l’impeto dell’Oceano sulla nostra barca in una notte movimentata. Le cime andine, salire a 5200 metri, dove nemmeno i cactus crescono più. L’altopiano boliviano, con i geyser, le lagune infinite, i vulcani, il silenzio, i villaggi di mattoni crudi. Il bianco accecante e assoluto del Salar de Uyuni.
Sembra in estasi, persa dietro ai mille fili dei ricordi: – Le tracce delle tartarughe marine nelle spiagge di Cozumel, in Messico, un rito antico che si ripeteva nonostante la modernità avesse invaso le spiagge con ombrelloni, baretti, scuole di surf e di immersioni. E sempre in Messico, la luna piena che illuminava il fondale della spiaggia di Tulum, nella nostra cabana senza elettricità quasi in riva al mare, o la giungla sterminata che si vedeva dalla cima delle piramidi Maya delle rovine di Calakmul. La forza di un temporale tropicale a Trinidad. Ogni volta, ogni singola volta, un sussulto, per le emozioni che la natura riusciva a regalarci.
Nonno EffeMaschio sussulta veramente.
– Mi è appena venuto in mente come arrivai a Machu Picchu! – dice felice – Non presi il treno, ci arrivai a piedi, con un trekking di cinque giorni. Avevo scartato il trekking più famoso: non potevamo prenotare 6 mesi prima un trekking, noi che viaggiavamo decidendo da un giorno all’altro la meta successiva. Avevamo la grande fortuna di avere un biglietto aereo aperto, che potevamo spostare gratuitamente, e ovviamente ne approfittavamo.
Continua a raccontare, indica un punto sulla mappa.
– Camminammo per quattro giorni, montando ogni sera la tenda in un posto diverso. Passammo per i paesaggi più diversi. Il primo giorno una valle, il secondo giorno camminavamo a 4000 metri di altezza con la neve alle caviglie, il terzo giorno eravamo di nuovo nella foresta semi-tropicale. Una sensazione bellissima, quella di guadagnarsi la montagna sacra chilometro per chilometro. E quando arrivammo in cima…bé era valsa la pena di avere le vesciche nei piedi! Ne era valsa assolutamente la pena.
– Machu Picchu era uno di quei luoghi che esercitavano su di noi un fascino straordinario. Era un sito famoso, pieno di gente, anche parecchio caro…ma era uno di quei punti avvolti nel mistero in cui sai di dover andare, almeno una volta nella vita. Io sognavo di andarci da anni, e quando mi trovai li…beh, fu emozionante.
– Tutto si può dire e ipotizzare su Machu Picchu, ma tutto è avvolto nel mistero: chi la fondò, chi la abitò, chi la abbandonò, chi la dimenticò. L’unica cosa certa è la maestosità delle montagne che la circondano, la vista mozzafiato dopo aver scalato Wayna Picchu, il valore sacro emanato da ogni pietra. Un artigiano indio di Agua Calientes raccontò alla nonna che il luogo per loro è sacro, le disse che bisognerebbe togliersi le scarpe, prima di entrare a Macchu Picchu, come quando si entra in una moschea. Disse che la cittadella è abitata dagli spiriti. E lassù…sembrava di vederli davvero, sulle montagne, gli spiriti. Basta crederci.
– Oltre alla natura, certe emozioni ce le ha regalate solo il tango.- La nonna ha la luce negli occhi quando parla dell’Argentina, si vede che ha tanti bei ricordi. – Che bel periodo abbiamo passato a Buenos Aires! Andavamo ogni sera a ballare tango, nelle milonghe meno blasonate, quelle più popolari e informali, in mezzo agli argentini e con pochi stranieri. A fine serata la gente cantava i vecchi tango, tanti erano giovani, era bello starli ad ascoltare.
– Comprammo le scarpe di seconda mano nel mercato di San Telmo, il barrio dove dormivamo, quello dove il tango viveva di più. Io riusci a rivenderle prima di partire, senza perderci un centesimo! – ride divertito il nonno.
– A Buenos Aires ci rendemmo conto che non eravamo bravi a ballare. Prendemmo delle lezioni. Il tango li era un’altra cosa, rispetto all’Italia: a lezione ti parlavano di emozione, di comunicazione…i maestri ti chiedevano di camminare spinto dal tuo cuore, dalle emozioni accumulate dentro di te. Fu bellissimo riuscire a sentirci vicini, come i nostri corpi cominciassero a parlarsi, e ad essere una cosa unica nel movimento. Capimmo il tango nella sua essenza, a Buenos Aires: è unione, simbiosi, scambio di sensazioni.
– Per un attimo pensammo pure di restare a Buenos Aires per un altro mese, invece di continuare il viaggio verso la Patagonia. Ma il richiamo della Tierra del Fuego fu più forte del tango. Volevamo andare a vedere la fine del mondo, e ci andammo, a Ushuaia, anche se è una fine del mondo fittizia! E da risalimmo la Patagonia cilena, attraversando lo stretto di Magellano.
– Come i marinai di secoli prima, in balia delle onde dell’Oceano. Che romantico!
Si è fatto sera, fuori. Le voci cominciano a incrinarsi, le luci della sala si sono accese automaticamente.
– Quando siamo partiti, volevamo che il viaggio fosse il punto di partenza per ricominciare a vivere in un modo nuovo. È cosi è stato. Quando attraversi paesi come la Cambogia o il Laos, o passi del tempo a fare volontariato a Cuzco in una scuola, la tua vita non può tornare a essere quella di prima, piena di abbondanza di cose inutili, come se niente fosse cambiato. Ti porti dietro questo senso di necessità di vivere felicemente, dove felicemente non significa più pieno di cose. Felicemente diventa vivere col necessario, senza sprechi, gioendo per tutto, smettendo di desiderare oggetti.
– È stata una grande lezione di vita, per noi. Per rimettere in fila le nostre priorità, prima di tutto. Per liberarci da zavorre inutili, come l’attaccamento alle cose. Per conoscerci ancora meglio, noi due. Per capire che genere di persone volevamo diventare. Per smettere di avere paura degli altri, imparando a fidarci. Per vivere con la metà delle cose che sembravano indispensabili.
I nonni si guardano. Ora sembrano un po stanchi. Ma sembrano pure felici.
– È un peccato che le nostre fotografie non si trovino, ci sarebbe piaciuto mostrarvele – dice con amarezza il nonno.
– Ora andiamo, manca ancora qualcosa da preparare per la festa di domani. – chiede la nonna – Ci aspetta una lunga giornata!
– A domani, famiglia – salutano i nonni.
I bis-nipoti restano di nuovo soli:
– Non gli abbiamo chiesto cosa sono le fotografie che cercano!
– Oh no, hai ragione…ci siamo dimenticati, presi dal racconto!
– Certo che i nonni sono davvero due personaggi strani…
– Ma secondo voi quello che ci hanno raccontato è vero?
– Devo dire la verità? A me pare che si siano inventati tutto…
– Mmm, devono averci lavorato tanto, però, perché hanno raccontato davvero tanti dettagli!
– No, secondo me non hanno inventato tutto…erano troppo sinceri…
– Ma dai, che ci vuole a inventarsi una storia cosi? Hanno messo insieme i racconti dei loro amici, ed ecco che il racconto viene fuori!
– Ma si, queste fotografie poi…nessuno le ricorda, nessuno le ha mai viste…
I nonni partirono qualche giorno dopo, con il loro carico di valigie e di ricordi, ma senza l’album di fotografie, che non si riuscì a trovare. La famiglia e i vari bis-nipoti tornarono nei diversi angoli del pianeta in cui vivevano. Si erano ripromessi di organizzare un nuovo incontro nella bella isola dove i nonni vivevano e sguazzavano felici.
Qualche tempo dopo la mamma di uno dei bis-nipoti scrisse ai nonni:
Cari nonni,
oggi ho portato all’Archivio storico i tre bauli di libri che avete lasciato da noi, come mi avevate chiesto. Catalogando i libri con i dipendenti dell’archivio abbiamo trovato biglietti d’auguri, i nostri disegni da bambini, vecchie stampe di biglietti aerei delle vacanze, vecchi documenti di carta…una piccola parte della nostra storia di famiglia. Ma soprattutto, abbiamo trovato qualcosa che credo vi appartenga più di tutto il resto. Vi chiedo scusa, a nome di tutta la famiglia, per non avervi dato retta nel cercare il vostro piccolo tesoro. Dentro una cartella di cartone con tanti disegni di bambini erano conservati con cura due passaporti con la copertina rossa, quelli vecchi di carta, pieni zeppi di timbri, un vecchio libro di carta con una dedica, dal titolo“Matti da sognare”, delle cartoline con le vostre firme da dei paesi che ora non esistono più, e il vostro album di fotografie. Non potete immaginare la mia faccia quando ho capito cosa fosse! Avevate conservato l’album insieme ai disegni della mamma e dello zio! Nonna avevi ragione quando ricordavi di averlo usato come libro delle favole per i bambini: nei disegni ci sono maghi, tappeti volanti, zucche e carrozze, ma anche la riproduzione di tanti paesaggi delle vostre foto. Il ricordo del vostro racconto si è arricchito delle vostre facce sorridenti di allora, e di quelle delle persone che avete incontrato sul vostro cammino. È stato bello trovarlo, e sfogliarlo, e ripensare con nostalgia al giorno in cui ci avete raccontato la vostra bella favola. I ragazzi sono stati entusiasti di vederlo, hanno passato ore a cercare sulla cartina le varie località in cui le foto sono state scattate. Penso che ora possiate inventare le bugie più grandi, crederanno a tutto quello che dite dopo aver visto che il vostro album era reale! Ve lo spedisco, certa di farvi un bellissimo regalo. Vi abbracciamo dalla terra dei canguri, a testa in giù.
Le fotografie partirono per il loro ultimo viaggio. Qualche giorno dopo arrivò la risposta dei nonni:
Ciao famiglia,
che bel regalo ricevere il nostro album!
Quando qualcuno ci chiedeva con insistenza perché volessimo partire per il nostro viaggio, rispondevamo scherzando che cosi avremmo avuto qualcosa da raccontare ai nipoti, da vecchi. I nostri nonni ci avevano dovuto raccontare la guerra, il fascismo, la ricostruzione del loro paese e del loro continente alla fine della follia umana. Noi non volevamo raccontarvi solo anni di sacrifici per comprare una casa, volevamo avere delle belle cose da raccontare. Volevamo raccontarvi la diversità, la bellezza della natura, la genialità dell’uomo, e anche la sua cattiveria, quando distrugge impunemente natura e culture per il suo profitto. Volevamo potervi raccontare di persona che non dovrebbe esistere una cultura predominante, ma ne dovrebbero esistere diverse, perché la diversità è la bellezza principale di questo mondo. E siamo contenti di essere riusciti a raccontarvelo. Di tutte le cose che abbiamo fatto nella nostra vita, questa è quella di cui andare più orgogliosi: ricordatevi di non smettere mai di sognare.
Un abbraccio a testa in su.
PS: A Dicembre 2011 abbiamo lasciato i nostri lavori e la nostra casa in affitto, e siamo partiti per fare il giro del mondo. In 239 giorni, sotto le nostre suole sono passati 85472 Km, 16 paesi, 4 continenti. Abbiamo attraversato Sud-Est Asiatico, Australia e Nuova Zelanda, Sud America, Cuba, Messico, USA e Canada. 133 letti diversi, 60 bus, +5200 e -20 Metri sopra e sotto il mare, 17 valute…e nessun rimpianto: è stata la scelta più saggia della nostra vita. Un giorno, avremmo qualcosa da raccontare ai nipoti
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