di Giacomo Rossi
Il taxi avanza lentamente, nel traffico, verso la stazione dei treni di Sealdah; la notte è calda come sempre, ma i colori e i suoni un po’ meno assordanti, il caos delle strade un po’ più lento.
Sto lasciando un uomo che è stato come un padre, in mano stringo i fiori che mi ha regalato: piccole lacrime commosse che non ha voluto mostrarmi sul viso. Sto lasciando un famiglia che è stata anche mia, a cui ho dedicato un po’ di lavoro, un po’ di impegno, un po’ del mio mestiere; “l’ingegnere” mi chiamavano, chissà se riusciremo mai a costruire gli impianti che ho progettato. Da loro ho imparato cos’è l’India: oggi è venuto il momento di andare a vederla.
Nessun occidentale può immaginare una stazione come quella che mi ritrovo di fronte. L’edificio è immenso, ma non è questo che colpisce: una moltitudine di viaggiatori sciama sul piazzale, verso le entrate, con un numero assurdo di bagagli e bambini al seguito; una moltitudine di venditori mette in mostra di tutto: dalle verdure ai giocattoli, dalle biciclette ai libri; un’altra moltitudine, meno numerosa, se ne sta più in disparte: per i mendicanti questo sembra essere un ottimo posto per lavorare.
Il tassista mi abbandona, per rituffarsi nella notte e nel traffico, lasciandomi in balia dei portatori di bagagli: un’altra piccola moltitudine che non avevo notato subito. Si fanno attorno pieni di speranza, decantando servizi e tariffe. No grazie signori, ho solo uno zaino, e viaggio leggero.
Manca un’ora e mezza all’arrivo del treno: sinceratomi che non sia stato cancellato, compro delle banane e del paratha con verdure da una coppia di vecchietti: il profumo del pane appena cotto è incredibile, il sapore delle spezie, stemperato dalle carote del ripieno, è un’esperienza non solo per il palato. Non mi rimane altro che aspettare, e assaporare il caos perfettamente coerente, mentre mi si muove attorno.
Per un europeo risulta incomprensibile come l’India possa funzionare: nessuno sembra seguire le regole, che spesso non sono scritte da nessuna parte, l’organizzazione pare del tutto assente, le persone sono tantissime e si muovono in tutte le direzioni, senza coerenza; e poi c’è il rumore: grida di venditori, pianti di bambini, stridio di locomotive e di auto, voci e urla e ancora voci. Il problema è che ci sono troppi strati sovrapposti, tutti nello stesso posto, contemporaneamente: l’unico modo per capirci qualcosa è imparare a separarli, ma per farlo non si può evitare di entrarci in contatto, di capirli o almeno di prestargli attenzione.
L’unico modo per capire qualcosa dell’India è portarsela dentro, assorbirla e diventarne parte: solo allora cominci a vedere, a capire, ad amare.
Il treno entra lentamente in stazione, e un nuovo elemento si aggiunge al caos in movimento composto: salita e discesa dei passeggeri, ovviamente in contemporanea. Sono molto fortunato, i miei vicini nello scompartimento sono una tranquilla coppia anziana con una ragazza. Ha la pelle scura, e veste un sari rosso e arancione, porta decori all’henné sulle mani e le braccia; lo sguardo puro e profondo dei suoi occhi fa riaffiorare alla mente le principesse dei racconti d’infanzia, per il loro amore re e principi gettavano al vento regni e imperi: il motivo mi è ora evidente.
Un’ora prima dell’alba, nella città sacra sul Gange, il silenzio è assoluto: si muovono solo i pescatori, i barcaioli e i loro clienti: per quei turisti tanto spavaldi da alzarsi così presto, lo spettacolo dell’alba sul fiume è una ricompensa perfetta. L’anziano rematore, con le tasche ben gonfie delle mie rupie, mi illustra le meraviglie della città: i ghat, le scalinate di accesso al fiume e i palazzi alle loro spalle, tutti diversi e particolari, costruiti da principi e santi per celebrare il fiume sacro e la loro illuminazione spirituale. Tra poche ore brulicheranno di fedeli e devoti, venuti fin qui da tutta l’India per purificarsi, e di turisti, venuti fin qui da chissà dove per scattare fotografie; presto si alzeranno al cielo i fumi delle pire funebri e le preghiere dei santoni. Ma ora c’è giusto il tempo di pregare per coloro che amo e per coloro che mi attendono a casa, affidando al fiume una corona di fiori coloratissimi. Probabilmente verrà recuperata in seguito dai barcaioli e rivenduta a qualche altro turista, ma non importa: è il gesto che conta, la preghiera è valida.
Nessun popolo come quello indiano riesce a far convivere la spiritualità più elevata con il pragmatismo più basilare, senza per questo generare il minimo conflitto nelle loro coscienze.
Sceso a terra, ringrazio il barcaiolo che sta già trattando con altri clienti, e raggiungo Simoné; è un medico austriaco, abbiamo lavorato a Kolkata nella stessa NGO. Ed è una bellissima ragazza.
La mattinata è luminosa, il cielo totalmente azzurro, la stazione poco affollata, il tassista gentile. Non sembra nemmeno di essere in India. Ma c’è un trucco: la città sta ancora dormendo, sono soltanto le sei e trenta e le strade sono popolate da qualche ciclista e da un paio di pattuglie della polizia, nessun’altro. Andiamo al Taj Mahal, amico: una fanciulla mi aspetta.
Arriviamo al limitare del quartiere più antico di Agra: lì il taxi mi abbandona, alle auto è proibito avvicinarsi al tesoro più prezioso dell’India, lo smog rovinerebbe il suo bianco perfetto.
Mentre mi guardo attorno e chiedo indicazioni, un giovane allegro si offre di darmi un passaggio sul suo rickshaw; posso camminare, non fa così caldo e lo zaino è leggero, ma lui insiste molto: è il suo lavoro, ci sfama i bimbi e la moglie, dice che è bravo e starà attento alle buche e alla polvere. Come rifiutare tanta professionalità e dedizione: allo Yash Cafe, per favore, mi stanno aspettando.
Una colazione veloce, uno sguardo alla mappa e siamo all’ingresso. Oggi non c’è molta gente e una gentilissima guida si offre di accompagnarci nella visita. Superato il cancello a sud, si è investiti dalla meraviglia; i giardini, il mausoleo, la simmetria delle fontane e degli edifici. La pace.
Il Taj Mahal non è un edificio, è un concetto materializzato nella pietra, la descrizione tangibile dell’amore assoluto. Ogni dettaglio, ogni misura e proporzione, ogni scorcio, sono un’affermazione di umanità, della nostra bellezza e dell’assoluto che portiamo con noi.
È facile, passeggiando con la propria compagna di viaggio in un luogo del genere, cominciare a fantasticare.
Fuori dal finestrino il deserto comincia a divorare i campi coltivati, lasciando spazio solo a radi cespugli verdissimi. Il Rajastan era la terra delle fiabe, dei luoghi incantati di cui si narra nelle Mille e una Notte; Udaipur lo è ancora. Qui un lago blu intenso, costruito dall’ingegno dell’uomo nel 1362, fa da cornice a palazzi bianchissimi, rimasti immutati dai tempi dei Maharaja. Sulla via verso il belvedere sbaglio strada, per fortuna: un corteo matrimoniale sta accompagnando lo sposo dalla sua bella; veste di verde, con un cappello a pennacchio, l’hanno sistemato su un bellissimo cavallo dal manto quasi bianco. Dietro di lui si snoda un corteo festoso, illuminato da un generatore elettrico portatile e accompagnato da una banda. Il generatore è molto rumoroso, così la banda deve suonare più forte; fanno un gran baccano e si divertono tantissimo.
Al tramonto, in un giardino pieno di colori, guardiamo il sole incendiare il lago, incendiare i palazzi: tutto si illumina un’ultima volta prima della notte. Uno stormo di pipistrelli nerissimi passa sopra al lago, le montagne sullo sfondo; sono tantissimi, volano veloci, inattesi. Poi torna la calma, il sole ormai basso trasforma il lago in oro e argento: ecco a cosa si sono ispirati gli artisti, nelle stanze dei palazzi.
Mi siedo sulla panchina: sarai mai la mia principessa?
Non c’è nessuno, in stazione, solo un venditore di bibite con il suo carretto arcobaleno e un guidatore di moto-rickshaw. L’astuto pilota, sceglie una via panoramica, per farci innamorare della sua città, fermandosi infine a due passi dal nostro albergo, proprio sul Lal Ghat. Il lago calmo, i muri bianchissimi, le finestre che sembrano tessute nella pietra, la camera con cuscini e vetri colorati: mi sento una principessa, dice. Sorrido; io comincio e sentirmi un principe, invece.
Visitiamo il museo, l’indomani: passando da un palazzo all’altro, scopriamo sale ricolme di decori, la cui fattura è davvero degna di un re, esposizioni di arazzi dai dettagli minuscoli, mappe di battaglie passate, armi di principi che hanno compiuto gesta grandiose. È così facile immedesimarsi in tanta storia, immaginarsi a cavallo, alla testa di eserciti di cavalieri, mentre l’amata compagna ti attende a palazzo.
Fantasticare, ancora fantasticare di principesse, passate e presenti.
Una giovane addetta del museo ci sorride raggiante all’uscita: se volete vedere uno spettacolo magnifico, andate al belvedere del tramonto: è così romantico, la sera. Perché no, dice Simoné.
Lungo la riva del lago, ceniamo su morbidi cuscini accompagnati dalla musica del citar.
Anche il cibo ha un gusto lento, qui, come se anche le spezie si rilassassero un poco.
Ambiente: Nonostante sia uno dei Paesi al mondo di più recente sviluppo, il Laos ha creato un’estesa rete di aree protette, che coprono più del 21% del territorio complessivo. Recentemente sono state aperte 17 Aree per la Tutela della Biodiversità in varie parti del paese. Flora: Nonostante i danni provocati dai bombardamenti su vasta scala […]