Sposarsi giovani e squattrinati ed attendere una vita per il viaggio dei sogni
“Ciao Tata, vieni qui. Ho una sorpresa per te”. Varco la soglia della nostra dimora, una villetta acquistata tanti anni fa dopo una montagna di sacrifici. Mia moglie Carla è indaffarata ai fornelli. Nell’ambiente c’è profumo di buono, è quasi ora di cena. La casa è il suo regno. Da sempre. Da quel giorno, era l’ottobre del 1972, in cui le nostre vite si sono unite.
Ricordo tutto.
I volti felici di parenti e amici, le lacrime di mia mamma, la chiesa con un addobbo essenziale tanto quanto i nostri conti in banca. Eravamo giovani, squattrinati e innamorati.
Io, Antonio, 25 anni, una laurea in ingegneria meccanica appena conquistata a suon di 30 e lode e borse di studio. Lei, poco più che 20enne, operaia in un maglificio. E un unico grande sogno: dirsi sì dopo un fidanzamento di tre anni e a lungo osteggiato. Suo padre non mi sopportava. Diceva non fossi quello giusto e, sinceramente, non ho mai capito il perché. Anche adesso, anche stasera. A 40 anni di distanza fatico a comprendere i motivi di quei suoi tanti “non se ne parla nemmeno”.
Carla dà un’occhiata al vetro del forno. Ormai ci siamo: ancora una manciata di minuti e il filetto in crosta contornato di patate piomberà nel bel mezzo della tavola imbandita. E’ il mio piatto preferito e lei lo sa. Un piatto speciale, per una giornata speciale.
“Allora, come è andata?” mi domanda. Si avvicina con passo spedito. Mi abbraccia, mi bacia. Un bacio vero, profondo. E’ il suo modo di darmi il benvenuto dopo un’intensa giornata di lavoro. Un rituale. Lei, dal matrimonio, è stata la casalinga perfetta. Io un ingegnere giramondo per un’azienda che realizza motori per macchine agricole.
Le nostre lingue si intrecciano, si sfiorano. Restiamo abbracciati per qualche attimo. La sua testa si appoggia alla mia spalla. La bacio sul collo. Carla sorride. Si discosta appena e mi fissa con quegli occhi grandi e verdi che, nonostante il passare del tempo, non smettono mai di provocarmi un brivido.
“Ciao vecchiettino, come ci si sente da pensionati?”.
“Mmh, ancora non ho realizzato. Difficile immaginare che giornata sarà domani; dopo tanti anni di lavoro pensare che, da un giorno all’altro, sarà tutto diverso…insomma non è semplice. Una nuova vita, sempre a casa, senza più dover correre tra progetti e test in officina. Non lo so. Tanto tempo libero. Sono felicissimo. Ma forse più avanti l’ufficio mi mancherà”.
Carla mi accarezza una guancia: “I giorni voleranno, vedrai”.
Col capo accenno un sì, la bacio.
“Che sorpresa avevi per me?” mi domanda incuriosita. Sorrido. Il timer del forno spezza l’incantesimo. Il filetto è pronto.
“Non c’è fretta” le rispondo mentre si incammina verso la cucina. La busta resta nella mia ventiquattrore che, dal bracciolo del divano su cui l’avevo appoggiata, ripongo a fianco della scrivania nel mio studio che dista solo qualche passo. Mangiamo. Ci baciamo ancora. E ancora.
Ma adesso è arrivato il momento. Corro nello studio, apro la valigetta. Tra le scartoffie e i progetti estraggo quell’involucro bianco che sembra un depliant. Su un lato appare la scritta “F&R tour”.
Torno in salotto. Sì, sono emozionato. E non lo nascondo. Carla ha già rimosso piatti, posate e bicchieri. È in cucina. Il cesto del pane staziona ancora al centro della tavola. Lo alzo appena e lo risistemo. Un microscopico lembo di carta bianca spunta dal vimini color nocciola.
“E lì sotto cosa c’è?” dice Carla mentre si riavvicina al tavolo.
“Non ti sfugge, niente. E’ la sorpresa…”.
Carla adesso ha tra le mani quella busta che sembra un pieghevole. Mi ricorda quando ero piccolo e fremevo dal desiderio di aprire un regalo. Non sta nella pelle, si vede. È uno stato d’animo che scorgo nel suo sguardo.
“E’ il nostro viaggio di nozze – le dico mentre legge con attenzione – Sono passati tanti anni ma adesso possiamo finalmente coronare il nostro sogno…”.
Carla ha il volto rosso dall’emozione, gli occhi verdi non riescono a imbrigliare quel mix di gioia e incredulità:
“Il giro…tu sei pazzo”.
“Sì, di te”.
Era il nostro sogno. Da sempre. Un lungo tour in Sud America, Oceania e Asia. Ma gli anni ’70 erano gli anni ’70. Si stava meglio, il boom economico alimentava le speranze di ognuno di noi. Ma viaggi così, in quei periodi, erano, e spessissimo rimanevano, una sola cosa: desideri. Il mondo io l’avevo girato. Spiega un motore in Cina, coccola un cliente in America, visita l’Europa alla ricerca di qualche idea per migliorare il prodotto che offrivamo. Ma lei no. Carla era sempre rimasta in casa, a casa. Le nostre vacanze scorrevano solitamente su e giù per lo Stivale: coi piedi in ammollo nel mare cristallino della Sardegna durante l’esodo agostano o sulla neve di Cortina a festeggiare con gli amici il Natale.
Ne avevamo parlato diverse volte: figli non ne arrivavano, i tempi cambiavano, i sogni pareva finalmente potessero diventare realtà. Però tutto slittava, anno dopo anno: la volontà c’era ma la convinzione di realizzare “il giro”, come lo chiamavamo tra di noi, forse non era mai abbastanza. Adesso però era tutto diverso. La pensione era arrivata: basta lavoro e stop allo stress. Era il momento di partire. E così qualche mese fa sono entrato in agenzia. Abbiamo organizzato tutto, tenendo Carla all’oscuro. Fino a oggi, a questa magica serata di fine ottobre.
“Non ho parole, non so come dirti grazie”.
Mi bacia sulla guancia, mi accarezza il volto.
“Non devi dirmi grazie. Semplicemente credo sia giunto il momento di tramutare un sogno in realtà. Non è mai troppo tardi per farlo”.
“Forse sì, hai ragione. Stavolta è proprio tempo di andare”.
Alla data fatidica mancava sempre meno. C’eravamo preparati al meglio, tutto era a posto. A cominciare dai passaporti. E per quello bisognava dire grazie a Sebastiano, parente-amico che lavora in questura da una vita e che ha reso tutto più celere e semplice. L’attesa cresceva.
D’altronde, dopo anni, il nostro sogno sarebbe diventato realtà. Non capita spesso. Più il tempo passava, più il calendario appeso a lato del mobile della dispensa in cucina assumeva i tratti di uno schema di una battaglia navale: stilizzate croci rosse marcate a pennarello coprivano i quadrati, affondando non piccoli incrociatori o fregate, ma giorni. Un conto alla rovescia. Come una sorta di maratona vissuta tra le quattro mura della nostra abitazione. Una maratona che alla fine non prevedeva arrivo. Ma partenze. Sì, la nostra partenza. Datata 26 novembre.
“Hai chiuso il gas?, L’auto è al sicuro? Hai detto a tuo cugino di andare a dare un’occhiata ogni tanto per controllare che tutto sia a posto? Hai preso i documenti?”. Carla mi stordisce con raffiche di domande. Siamo sul taxi diretti a Malpensa, quaranta minuti o poco più da casa nostra. C’è nebbia. E non è una novità. Sono le 8.45.
“Chissà se con questo meteo ci saranno problemi?”.
“Vedrai cara, non ci saranno intoppi. Abbiamo il volo per Lisbona alle 11.30, decolleremo senza difficoltà” la rassicuro.
La pianura, coi tipici colori dell’autunno, ci fa da compagna. Io e Carla adesso siamo in silenzio. E’ un silenzio d’attesa, intriso d’emozione. In radio passa una canzone di una qualche baby stella “prodotta” da uno di quei reality canori che tanto vanno di moda.
“Voci fotocopia, tutte identiche tra loro”. Entrambi, sull’argomento, abbiamo sempre avuto lo stesso parere. Malpensa ci accoglie tra le sue braccia a tinte verdi e giallo ocra. Il taxista ci “recapita” davanti all’ingresso delle partenze internazionali. Il volo Tp1575 delle 11.30 è confermato. A comunicarcelo è uno dei tanti monitor disseminati qua e là.
Intorno è un tourbillon di valigie multicolor sfreccianti, di manager in gessato con iPhone 5 all’orecchio. Di rumori di tazzine e di brioche fumanti ingurgitate a gran velocità. Di giornali e riviste-passatempo utilizzate per uccidere l’attesa. E di vite che si intrecciano solo per qualche attimo prima di dividersi. Mi ha sempre affascinato stare in aeroporto. Si incrociano persone e volti nuovi. Tutti insieme: chi timoroso per l’imminente volo, chi scocciato per uno slittamento d’orario, chi trepidante perché smanioso di arrivare a destinazione e godersi qualche giorno di meritato riposo. Storie,vite. Che si sfiorano per un istante. E che, dopo appena qualche ora, ripartono dai luoghi più remoti della terra.
A migliaia di chilometri l’una dall’altra.
Il Boeing 737-800 saluta l’Italia alle 11.33, in perfetto orario. Qualche timido raggio di sole inizia a farsi largo tra la fitta foschia della pianura. Il “Bel Paese” lo ritroveremo tra 38 giorni precisi, quando già sarà il 2013. Intanto ci attendono Brasile, Australia e Thailandia. Samba, canguri e spiagge da favola. Un menù che più ricco non si può. Scalo a Lisbona. Poi Natal. Sì, io e Carla abbiamo scelto di incominciare da lì, dal punto più a oriente del Sud America. Atterriamo in Portogallo quasi tre ore più tardi e ripartiamo dopo appena 90 minuti. Il caldo e il sole ci attendono.
E noi non vediamo l’ora di incontrarli.
C’è la solita trepidazione dentro quel budello di acciaio, cavi elettrici, radar e tecnologia che da pochi istanti si è posato sul suolo carioca dopo una decina d’ore a spasso tra le nuvole. C’è frenesia. E voglia di caldo, di sole e d’estate. Per qualcuno c’è pure voglia di casa. Di un bacio alla moglie e un abbraccio ai figli dopo giorni di assenza per chissà quale motivo. Le porte si spalancano, la fila indiana armata di trolley e zaini lascia speditamente l’aereo. Io e Carla ci intrufoliamo, smaniosi.
“Bye” diciamo all’hostess che staziona a due passi dall’uscita.
“Bye” risponde sorridendo.
Natal – Sud America
Una ventata di brezza estiva ci abbraccia, un caldo sole ci accarezza il volto. Addio nebbia, addio inverno.
“Che l’avventura abbia inizio”. Ci baciamo.
L’aeroporto è alle nostre spalle. Dopo trenta minuti di taxi arriviamo al villaggio turistico, la nostra casa per una settimana. E’ accogliente, le stanze sono spaziose e zeppe di confort. E poi si affaccia proprio su praia de Ponta Negra, chilometri e chilometri di spiaggia, il cuore pulsante di Natal.
La celebre “discesa” sabbiosa è proprio lì, a due passi da dove vivremo per qualche giorno. Non so se sia il marchio distintivo di questa città, la particolarità che la rende unica in tutto il globo. Di certo so solo che, se su un qualsiasi motore di ricerca della rete digiti “Natal+immagini”, quella cascata sabbiosa riempirà immediatamente lo schermo del tuo pc.
Io e Carla ci adagiamo in stanza. La vista sull’oceano Atlantico è di quelle da togliere il fiato. Resteremo qui per otto giorni, 192 ore, ora più ora meno.
Un tuffo nel Brasile: sole, spiagge, samba e calcio. E allegria. La gente è povera ma non smette mai di sorridere.
La nostra pianura Padana sembra distante un’infinità di chilometri. Molti di più di quelli reali. Qui i bambini non trascorrono pomeriggi interi incollati al computer o a fondere play-station. Qui piccoli e meno piccoli si affrontano a interminabili partite a pallone sulla sabbia, con la speranza un giorno di calcare terreni ben più nobili di questo. Vivono con l’essenziale, non vogliono nulla di più. A loro basta un soldo, strappatoti con un sorriso all’uscita da un negozio, una palla da rincorrere, due porticine delimitate da magliette colorate, appallottolate e gettate a terra. Al resto pensa il sole, il mare e la musica.
La samba è come l’ossigeno. Non manca mai. La si sente ovunque.
Tra gli ombrelloni di legno e paglia nel lembo di spiaggia riservato, nelle strade del paese contornate di case bianche e palazzi, nel più piccolo dei bar cullato dall’ombra delle palme. Otto giorni possono apparire tanti. Ma quando le ore filano via, nemmeno ci si accorge del tempo. Io e Carla non vogliamo perderci per nessuna ragione al mondo l’escursione con la Dune Buggy. Ne abbiamo parlato quando eravamo a casa. Ce l’ha consigliata anche Luca, 31enne reggiano che abbiamo incrociato in questo angolo di mondo.
Ha detto addio all’Italia perché a Natal, nel corso di una vacanza con amici, ha trovato l’amore della sua vita. Cristiana, conosciuta una sera in discoteca, ragazza brasiliana di due anni più giovane di lui, è diventata sua moglie. Insieme ora gestiscono un ristorante: si chiama “Brescello”, proprio come il paese della Bassa reggiana che accolse le avventure di don Camillo e Peppone. “E’ il paese dell’Emilia – diceva Luca con un’inconfondibile e coinvolgente parlata – da cui sono partito sei anni fa per una vacanza che mi ha completamente cambiato la vita”. Al “Brescello” siamo entrati una sera, incuriositi da un nome tanto particolare. Ci siamo fermati a cena, abbiamo conosciuto Luca e Cristiana. Si sono accomodati al nostro tavolo dopo averci servito piatti che hanno riportato nelle nostre bocche i sapori della tradizione italiana. E davanti a un buon bicchiere di vino bevuto in compagnia ci hanno permesso di conoscere Natal, snocciolando preziosi consigli. Tra questi l’imperdibile escursione tra le dune.
Carla e io lasciamo Natal che è metà mattina. La Dune è rossa con la cappotta gialla. Ci accompagna Luis, la nostra guida, il nostro autista. Rapidi saliscendi, fianco a fianco con l’Atlantico. Le spiagge, così bianche e luminose, sembrano di sale. Il cielo azzurro si confonde col mare cristallino, facendo quasi “sparire” l’orizzonte. Ci gustiamo un pranzo da favola in un ristorante fatto di capanne di legno e paglia, a una manciata di metri dalle onde. Assieme a Luis raggiungiamo Pipa. Una nuotata nelle acque trasparenti, un bagno di sole su un’infinita distesa di sabbia bianchissima. E’ tempo di rientrare. Ma, soprattutto, è tempo di ripartire. L’Australia ci attende. Sydney, Melbourne e compagnia. Il secondo capitolo del “giro”.
Australia
Partiamo che è mattina presto. Un’occhiata alla discesa di sabbia, uno sguardo all’Atlantico e alla città. I giorni in Brasile sono letteralmente volati. Carla e io salutiamo animatori e i pochi connazionali conosciuti nel villaggio. Sul volo verso San Paolo abbiamo modo di fare un breve riassunto dei primi giorni del “nostro” viaggio. Chiacchieriamo, siamo felici. Sosta di un paio d’ore. Cambio aereo, destinazione Sydney. Dell’Australia non sappiamo nulla. O quasi. Né io né Carla abbiamo mai sfiorato l’Oceania. Preoccupati? No, tutt’altro: incuriositi, questo sì.
Le poche informazioni che conosciamo ci sono arrivate attraverso internet. Altre le abbiamo captate dai racconti di chi qui è già passato. Sono le storie di giovani studenti. Ma sono anche le storie di chi ha scelto l’altra parte del mondo per ripartire, alla ricerca di un’occupazione o, più semplicemente, spinto dal desiderio di costruirsi una nuova vita. Lontana da tutto e tutti, dai ritmi frenetici che scandiscono, e spesso annientano, il nostro vivere quotidiano. Schiavi del lavoro, di budget e profitti. Schiavi del “tutto pur di ottenere quel risultato”.
Sydney è diversa. Calma, accogliente, mite: a misura d’uomo. Bastano pochi minuti per rendersene conto. Nonostante sia una metropoli da qualche milione d’abitante. Soggiorniamo in un hotel a cinque stelle, uno dei più esclusivi della città. Durante il volo abbiamo danzato sulla linea del cambio di data ed è stato intrigante. Così come lo è stato sorvolare quei piccoli atolli che, sparsi qua e là, interrompono l’infinita distesa d’acqua del Pacifico. Io e Carla siamo un po’ frastornati. La traversata non è stata certamente breve, il fuso orario si fa sentire. Lo Shangri-La è il nostro rifugio. È sera, il sole sta tramontando.
“Vieni a vedere”.
Dopo una doccia rigenerante, Carla mi invita da lei. Si trova a due passi dall’enorme vetrata che occupa un intero lato della nostra stanza. Rimaniamo entrambi senza parole nel vedere il panorama che si apre dinanzi a noi. I tetti candidi e lucenti della Opera House riflettono gli ultimi raggi dell’estivo sole che, lentamente, si sta inabissando nelle acque della baia. Le sinuose linee dell’Harbour Bridge completano quel meraviglioso scenario.
“Sembra una cartolina” mi dice.
“E’ vero, un dipinto”.
Restiamo abbracciati per qualche minuto. La mia testa trova appoggio sulla spalla di Carla. Lei, con la mano destra, mi accarezza la pelle del volto fresca di rasatura. Le scosto i capelli e la bacio sul collo. Ci sdraiamo e facciamo l’amore.
La mattina successiva noleggiamo una bicicletta.
“E’ il modo migliore per gustarsi la città” ci assicurano alla reception. Cartina geografica alla mano, iniziamo il tour. Visitiamo l’Opera House, l’Harbour Bridge, i numerosi parchi che contraddistinguono questo pezzo di Australia. Nella gente non c’è frenesia, i volti sono zeppi di sorrisi. All’ora di pranzo manager vestiti di tutto punto si danno appuntamento nell’enorme parco nei pressi dell’Opera. Parlano, si confrontano. Staccano. Senza tensioni, senza stress. La giornata trascorre che nemmeno ce ne accorgiamo. Dopo la cena e due passi in città, decidiamo di rientrare in stanza.
“Per che ora fisso la sveglia?” mi domanda.
“Non troppo tardi, dai. Così abbiamo un’altra giornata intera per gustarci a fondo Sydney, con tutte le sue meraviglie. Cosa ne dici?”.
“Hai ragione. Sogni d’oro tesoro”. Ci baciamo intensamente prima che un sonno profondo si impossessi di noi.
Il Risveglio
Sento suonare la sveglia. Mi giro di scatto per interrompere l’odiosa cantilena che proviene dal comodino: “Bip-bip, bip-bip…”. Mi sdraio nuovamente e con la mano destra accarezzo il lato del letto occupato da Carla. Le lenzuola sono gelide, così come la federa che ricopre il suo cuscino. Da seduto, con gli occhi ancora semichiusi e un gesto ripetuto non so nemmeno quante volte, provo a infilarmi le ciabatte di lana calda. Voltandomi bruscamente, mi ricordo che Carla non c’è. Non può esserci. Penso e una lacrima, all’improvviso, mi riga il volto. Faccio qualche passo e arrivo alla finestra.
“Maledetta nebbia” dico mentre spalanco le persiane. Di fronte a me non ci sono i tetti lucenti dell’Opera House di Sydney, la tranquillità della gente, il tepore del sole estivo. E non ci sono neppure le dune bianche di Natal, il rombo della Buggy e le note di samba. Non c’è la Thailandia e non c’è alcun “giro”.
E, più di ogni altra cosa, non c’è Carla.
Un male terribile, fulminante, se l’è portata via un mese fa. In bagno, specchiandomi, fatico a riconoscere quella persona dal volto cinereo, dagli occhi tristi e dallo sguardo perso. Vedo un altro me, un uomo che non è più lo stesso.
Un vecchio. Solo. Sistema le coperto e mi vesto. Scendo le scale in legno. L’aria è piatta, inodore. La cucina è vuota, inanimata, grigia. E’ l’ultimo giorno di lavoro della mia vita, sono a otto ore o poco più dalla pensione.
Quando rientrerò non ci sarà Carla ad accogliermi. Non ci saranno i suoi baci. Raccolgo la ventiquattrore abbandonata la sera prima sul divano. Apro la porta di casa e m’incammino per il viottolo della nostra villetta comprata dopo una montagna di sacrifici. L’auto mi attende. Mi blocco a pochi passi da un cestino dell’immondizia. Dalla borsa del lavoro estraggo il biglietto del “giro”, il nostro giro. Lo fisso, mentre lo stringo ben saldo tra le mani.
“Mi manchi Carla, non puoi nemmeno immaginare quanto. Vorrei fossi qui, ti amo e ti amerò. Sempre”.
Accartoccio il biglietto e lo getto via. Una lacrima mi segna il volto.