di Lucia Pezzolesi
Viaggiare è qualcosa di meraviglioso, insolito e incosciente. Vi chiederete perché incosciente, il motivo è perché credo che il vero viaggio sia quello fatto senza regole, senza programmi, quello che ti trascina in posti unici, inimmaginabili e che ti fa provare sensazioni mai sentite prima.
Prendevo il mio zaino quasi vuoto, con dentro solo l’essenziale e mi avventuravo per il mio primo grande viaggio: tre continenti, senza un obbiettivo reale e senza regole e un unico scopo, quello di lasciarmi tutto alle spalle.
Appena scesa a Suvernaburi il grande aeroporto di Bangkok, non sapevo cosa aspettarmi, un aeroporto che i Thailandesi avevano costruito in quarant’anni doveva essere per forza straordinario, ma in realtà niente di speciale, l’unica cosa particolare che non avevo mai notato prima in altri scali erano le tante piante e fiori poste lì ad arredo che già m’introducevano nello spirito thailandese.
A Bangkok restavo solo pochi giorni, troppo smog e caos, che non rientravano nell’idea del mio viaggio rilassante.
Le strade di Bangkok erano piene di bancarelle e negozi, ricordo che stavo osservando un negozio di borse, quando il venditore m’invitò a seguirlo per una porticina sul retro bottega e quando entrai davanti a me vidi il mondo……un’esposizione di circa un migliaio di borse di tutti colori e tutti i tipi, imitazioni delle nostre marche originali, non mi sembrava vero, ma ben presto mi accorsi che quasi tutti i negozi nascondevano questo piacevole segreto.
All’uscita dei negozi notai le massaggiatrici improvvisate che invogliavano i turisti a sedersi nelle loro poltrone colorate per un piacevole “foots massage”, niente male dopo una camminata di 2 km…….
Ecco che ora mi dirigevo nel famoso mercato galleggiante di Chatuchack. con il mio tuk tuk che mi conduceva lì per pochi Bath (moneta thailandese) e appena arrivata scoprii uno spettacolo a dir poco curioso…tante barchette poste una di fianco all’altra piene di frutta esotica, fiori, ceramiche, souvenir, scarpe, abiti, incensi e tanti oggetti fatti a mano in legno decorato, ma la cosa magnifica era sopratutto l’affascinante concerto di colori e odori .
Mai tanta genialità e stranezza vista prima, un amico thailandese mi disse che non lontano da li esisteva anche un mercato allestito sopra i binari del treno che ad ogni passaggio dello stesso, veniva disfatto e poi di nuovo riallestito.
Era difficile non perdersi nella confusione tra le migliaia di visitatori che girovagano incuriositi, ma per fortuna con me avevo la piccola mappa che i thailandesi regalavano all’ingresso e le stradine del mercato erano numerate per facilitarne lo shopping.
Al mio terzo giorno di viaggio, dopo ore di pullman approdavo nella magica isola di Ko Chang, una delle poche ancora intatte dal turismo, avevo ascoltato per ore le tipiche canzoni thailandesi, anche se il solo sentirli parlare sembrava non una lingua, ma un concerto di suoni.
Il pullman aveva fatto diverse tappe nel tragitto, fermandosi per i mercati locali sulla strada e ricordo con stupore di aver visto bancarelle insolite, dove a una prima occhiata pensavo vendessero caramelle, ma avvicinandomi notai che il loro business consisteva nel vendere cavallette fritte, rane caramellate e larve d’insetti.
Nell’isola non c’era nulla che non avesse qualcosa di speciale, la gente era gentile e sempre sorridente, la spiaggia in sabbia bianca e l’acqua cristallina, uno spettacolo incredibile di una natura che riecheggiava ovunque.
La cultura dei massaggi in Thailandia è qualcosa di molto radicato, si susseguivano, infatti, negozi, vicini uno all’altro, e non c’era niente di più rilassante di un oil massage anche a bordo spiaggia mentre la mente era già di per se distesa dall’atmosfera creata dal rumore del mare e della natura.
Non credo di aver visto mai tramonti così belli e mentre il sole calava dolcemente a pelo dell’acqua, le scimmiette saltellavano da una palma all’altra e ti osservavano come se volessero comunicare qualcosa, io gustavo il mio cocco e la sera assaggiavo il pesce fresco grigliato al barbecue nel ristorantino bordo spiaggia. A fine serata i camerieri gettavano i piccoli granchietti vivi in mare, quei poveri ma fortunati granchi, che quella stessa sera, erano stati risparmiati dalla non scelta dei clienti al banco.
La Thailandia, un paese senza troppe regole, macchiata anche da quella parte di turismo sessuale che sembra però non pesarle, il paese dalla cultura buddista e pacifista, dai monaci che camminano scalzi per la strada con la loro tunica arancione e guadagnano passaggi gratuiti e cibo dai credenti, il paese dalle spiagge più belle al mondo, il paese che ha sofferto per il tragico tsunami.
Un ragazzo mi raccontò di averlo vissuto, dei suoi ricordi tragici e sofferenti, ma anche delle storie belle di vita, di gente sopravvissuta miracolosamente per essersi attaccata a un ombrellone, o di chi invece ha beffato il destino finendo dall’altra parte della città perché caduto in un tombino.
Non potrò dimenticare il mio ultimo tramonto in cima alla collina sacra dei buddisti con altre migliaia di persone e di monaci thailandesi che lì come me, ammiravano lo spettacolo affascinante del sole calare piano piano.
Il mio tempo qui era terminato, e avevo compreso, anche se solo in parte, l’immensità della vita e l’importanza di conoscere nuove culture, due cose dimenticate nella solita routine quotidiana.
La mia prossima meta sarebbe stata la Nuova Zelanda, patria della trilogia del signore degli anelli, dimora dell’eternità e di affascinante bellezza.
Facevo scalo all’aeroporto di Auckland, lì affittavo un’auto per dirigermi a Waitono e la prima cosa che mi colpiva della Nuova Zelanda era lo spettacolo affascinante della natura, strade percorse passando per le campagne e paesini che sembravano quelli delle favole.
La Nuova Zelanda per me era qualcosa di sconosciuto, una scelta improvvisata e non sapevo cosa aspettarmi, ma come ho già detto, l’inaspettato è la cosa più piacevole di ogni viaggio.
A Waitono mi avventuravo per le Waitono Caves, delle grotte una accanto all’altra, al cui interno, appesi al soffitto vivono dei vermiciattoli luminosi, uno spettacolo curioso e al tempo stesso affascinante, che si può ammirare andando con dei ciambelloni galleggianti di gomma per un percorso fluviale di qualche km, galleggiando a testa insù all’interno delle grotte.
La natura in questo continente sperduto, scoperto per la prima volta dal celebre esploratore J.Cook, è così imponente da lasciare senza fiato, il clima piacevole, ma variabile e la cosa più spettacolare è la perfezione di questi paesaggi incontaminati dall’uomo, dai fiordi ai laghi, dalla lussureggiante foresta pluviale ai ghiacciai.
A capo di questa riflessione ho potuto comprendere che la pace interiore si può veramente trovare se si ha il dono anche solo chiudendo gli occhi di immaginare questa splendida natura. La mia esperienza in Nuova Zelanda mi ha colpito profondamente, dallo Chalet nelle montagne in pace assoluta, al rilassante rumore dell’acqua che scende per le cascate, anche la cosa più stupida , come visitare le fattorie Neozelandesi, dove il tempo sembra essersi fermato tra pecore, struzzi e cani pastore addestrati e gustarsi al termine della giornata formaggi e latte fresco, è una delle tante cose che mi rimarranno nel cuore.
La Nuova Zelanda è un’isola fantastica, la sua caratteristica principale è quella di essere rimasta per tanto tempo incontaminata dall’intervento dell’uomo e questo ha consentito alla natura di crescere libera, rigogliosa e selvaggia, cullata dal vento, dalla pioggia e dal mare, consentendo a fauna e flora di vivere indisturbati. I primi a sbarcare sull’isola furono i Maori colpiti dalla sua abbondanza.
Mi dirigevo verso il sud dell’isola, per il Fiord land National Park e poi al Nelson Lakes National Park, quando in uno di questi inciampai in uno spettacolo Maori, danze al ritmo di tamburi… i ballerini si cimentavano nella famosa danza haka, contorcendosi con smorfie buffe, insolite e divertenti.
Nella mia visita al nord dell’isola invece, avevo potuto ammirare le città neozelandesi moderne e i vulcani ancora attivi, ed era come se in questo luogo, l’uomo avesse cercato di conciliare le tecnologie più moderne con le forze naturali più antiche della terra.
Lasciavo la Nuova Zelanda, ma questa volta la mia ultima meta era decisa dal destino, all’aeroporto di Auckland acquistavo un “last-minute” per il Brasile.
Durante il mio volo mi ronzava in testa la musica, la calda ed euforica Samba brasiliana, chiudevo gli occhi e non potevo che sognare di trovarmi immersa nel fragore della folla, euforica per il Carnevale di Rio de Janeiro, le donne ballavano nei carri con i loro vestiti colorati e pomposi. Avevo la sensazione che il Brasile mi avrebbe reintrodotto nella realtà, dopo giorni bucolici immersi nella natura della Nuova Zelanda.
All’arrivo a Rio de Janeiro l’atmosfera brasiliana mi veniva incontro, inciampavo, infatti, in uno spettacolo di Capoeira improvvisato in strada, un’arte marziale brasiliana, caratterizzata da elementi espressivi come la musica e l’armonia dei movimenti, una persona mi aveva raccontato in passato che quest’arte era stata creata dai discendenti degli schiavi africani nati in Brasile.
Se dovessi fare un paragone tra le tre mete visitate, potrei definirle così: la Thailandia, il paese del sorriso e della pace, ogni forma di violenza e delinquenza qui è vietata, la Nuova Zelanda, il paese della pace interiore, dove l’anima riacquista potere e fiducia, il Brasile dove la vita e il divertimento regnano sovrani, in ogni angolo della strada.
Giungevo a Capacabana con un autobus sovraffollato di gente e mi rilassavo in spiaggia, ammirando il poco pudore tipico delle donne brasiliane, che indossavano i loro tanga invisibili e pensavo che in Thailandia quelle stesse donne sarebbero state viste diversamente, nella cultura di quest’ultime, infatti, non è concepito nemmeno andare al mare in costume, ma semmai con una t-shirt addosso.
In realtà il brasile non è solo tutto qui e mi meravigliavo quando riscoprivo un po’ d’interiorità nel rito del tramonto che si può ammirare al forte di Copacabana.
Non potevo non visitare Corcovaro, la città situata in una grande baia d’isolotti, il paesaggio stupendo era disegnato da colline e montagne verdissime che cadevano a strapiombo nell’oceano formando le favolose spiagge brasiliane, imponente si erigeva la splendida statua del Cristo redentore, simbolo di Rio.
Il brasile non è solo Samba, cibi piccanti e spiagge, il brasile racchiude anche le favelas, la vita di chi nasce ed è costretto a vivere con la povertà e la delinquenza negli occhi, chi di scelte ne ha poche e chi vive ventiquattro ore su ventiquattro sorvegliato dalle canne dei mitra dei poliziotti.
Mi ero diretta a visitare la favela di Racinha, un alveare di case fatiscenti, poste una sovrapposta all’altra, senza fognature ma con antenne paraboliche di ogni tipo. La favela era sorvegliata a vista dalla polizia dopo l’arresto del “boss” rinchiuso nel carcere di massima sicurezza.
Non potrò dimenticare gli occhi dei bambini curiosi, dalla vita segnata, gli occhi ingenui di quei cuccioli che già si sentivano e si atteggiavano come capi malavitosi e che venivano trasportati dallo spettacolo turistico.
Ma a volte il destino è segnato e senza accorgetene e senza volerlo ci si ritrova a dover compiere i passi di una strada scritta e stampata, sicuramente vedere questo lato del Brasile anche se triste, ti fa apprezzare di più la vita che uno ha e a volte non valorizza.
Non potevo non perdermi, prima di lasciare questo paese suggestivo, la foresta tropicale all’interno di Rio, composta da piante enormi, alberi giganti da frutto e fantastici fiori colorati, un vero e proprio paradiso verde che si raggiunge con un turistico jeep tour, il profumo dei fiori m’inebriava e il canto degli uccellini riprodotto nei monitor mi trasportava con la mente nell’atmosfera tropicale.
L’ultima meta prima della partenza mi creava una forte emozione, mi dirigevo verso una delle meraviglie del mondo, le Cascate del Parque Nacional Igazù in Argentina, non molto lontano dal confine brasiliano.
Per raggiungerle il percorso era costituito da passerelle sospese sul fiume fino alla Garganta, un Canyon a ferro di cavallo dalla profondità di circa 9 metri dove precipitava il fiume.
Qui il tempo sembrava essersi fermato e per un attimo anche il mio cuore sembrava non battere più di fronte allo spettacolo affascinante delle Cascate che fin a ora avevo visto solo nei film, si sentiva un forte fragore dell’acqua e l’aria era coperta da una leggera nebbiolina creata dai fumi di vapore e mentre mi avvicinavo alle cascate, non capivo se a bagnarmi il viso erano gli spruzzi dell’acqua o le mie lacrime di emozione.
Questa volta dovevo ripartire e a malincuore mi preparavo al mio ritorno a casa, ma ero certa di una cosa, che il mio spirito da viaggiatrice presto mi avrebbe riportato in luoghi nuovi e sperduti, perché avevo compreso che non potevo vivere senza viaggiare e che i miei occhi erano così curiosi di vedere il mondo da assomigliare a quelli di una bambina appena nata.
In realtà credo che il mio sia stato un viaggio senza ritorno, perché ero tornata cambiata, diversa e più cosciente, non ero più la stessa persona di quando ero partita, quella ragazza non c’era più e si era persa nel viaggio di andata.
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