di Chiara Canonici
Amo viaggiare, da sempre. Ogni volta che ho preso lo zaino e sono partita, ho fatto esperienze uniche, tanto più entusiasmanti quanto più mi sono lasciata trasportare dal luogo, dalla gente, dal momento. Il risultato è sempre stato la piacevole sensazione di aver visitato molto più di quello che è scritto sui biglietti di imbarco o sulle note spese.
FOTO SGUARDI
Oltre la musica, gli odori e i sapori che caratterizzano ogni posto, mi incuriosisce la gente, i loro sguardi e il fondo misterioso e autentico dei loro occhi.
Alla fine viaggio per questo: per cogliere la grandezza umana e i suoi modi sempre nuovi di rapportarsi al breve respiro della vita.
Mentre scrivo, sono in fase di decollo. L’aereo spinge i motori al massimo. In un attimo il frastuono riempie l’abitacolo eppure, mi risuona dentro quasi piacevolmente, come il rullo di tamburi che accompagna il trionfo di questo volo verso la luce.
Mi sembra di volare per un tempo lunghissimo, fin quando non atterro, confusa dal viaggio e dal jet lag.
A Lima il traffico è congestionato. I veicoli si muovono restando quasi appiccicati gli uni agli altri e il clacson è strumento fondamentale se vuoi arrivare alla meta ma ne devi fare un uso smodato.
Nell’aria l’odore di fritto e di smog si mescolano creando una cappa pesante e untuosa.
Il taxi che ho preso mi condurrà all’hotel dove pernotterò una notte soltanto per poi muovermi nell’ordine, verso il lago Titicaca, Cusco e Machu Picchu.
Nella hall trovo ad attendermi Wilma, guida peruviana nonché mia unica compagna di viaggio per i prossimi dieci giorni.
Di chiara origine inca, è bassa e un po’ tarchiata, carnagione olivastra, viso largo, gioviale ma dai tratti volitivi. Ispira un senso di protezione e indulgenza nonostante la fermezza della mascella e lo sguardo penetrante. Nel complesso, questo miscuglio di tratti contrastanti la rende originale. Si presenta in modo deciso, allungando la mano sinistra poi mi invita ad assaggiare un bicchiere di Pisco, la bevanda nazionale, dal gusto fresco e raffinato, anche se alquanto alcolica.
Mi consiglia di andare a dormire subito, per tamponare l’effetto del fuso orario e per prepararmi ad un viaggio lungo e duro. In effetti, saliremo fino a 4900 metri di altitudine in appena qualche giorno e lo choc fisico potrebbe essere mal sopportato da un corpo come il mio, non abituato alle altezze.
Il giorno seguente, usciti dal caos della città, con un fuori strada spartano ma comodo, guidato da Ricardo, un ometto grasso e dall’aria simpatica che parla esclusivamente Quechua, la lingua dei nativi, costeggiamo l’Oceano Pacifico che a dispetto del nome è increspato di onde spumeggianti di un intenso colore grigio.
FOTO FAVELAS
Soffia un forte vento, con raffiche continue e incalzanti. Mi sembra un miracolo che la folta distesa di ivasiones, le favelas peruviane della periferia di Lima, che punteggiano le aride colline dirimpetto al mare, possano resistere alla forza di quelle sferzate, considerato che, sono fatte di una semplice stuoia messa a coltello, chiusa a formare un cubo sopra il quale sono fissate, in maniera precaria ma a quanto pare efficace, una manciata di canne che dovrebbero fungere da tetto.
In lontananza, osservo una ragazzina completamente nuda che si insapona all’aria aperta, mentre una donna, che presumo essere la madre, è pronta con un secchio d’acqua a lavarle via il sapone di dosso. Mi stupisce il fatto che non vi sia alcuna malizia nel mostrare quella nudità acerba ma già attraente.
Chi osserva questa scena vede il semplice srotolarsi di gesti usuali eseguiti con attenzione, scrupolosità e delicatezza. Sembra quasi che nel mostrarsi nudi non ci sia vergogna, né senso del pericolo, piuttosto, quel rispetto e quel decoro necessari a frenare qualsiasi altro tipo di appetito.
Procediamo senza sosta sulla Panamericana, striscia di asfalto che le dune di sabbia cancellano a tratti, fino a quando non iniziamo ad inerpicarci verso est, lasciandoci l’oceano alle spalle.
Tra i paesaggi selvaggi di nuda roccia si rincorrono bambini vestiti di abiti coloratissimi, intenti a far volare aquiloni improvvisati. A terra, tra le pietre e la polvere, spiccano le verdi macchie di iarita, l’unico arbusto in grado di sopravvivere in questo habitat estremo. Grazie all’ingegno umano affinato dalla povertà, qui si esercita ancora quelle virtù di essenzialità e versatilità che l’Occidente ha perso da tempo. La iarita, infatti, è usata in molti settori: in quello edile come valido legante nella fabbricazione dei mattoni; in quello alimentare come foraggio per i lama e le vigogne e in quello farmaceutico: a quanto pare, costituirebbe un valido rimedio al diabete.
FOTO TITICACA
Il Perù mi affascina per la varietà di prodotti naturali che hanno un’ampia gamma di utilizzi. Le isole galleggianti, sul lago Titicaca, ne sono un ulteriore esempio, forse il più eclatante. Vi arriviamo dopo un viaggio estenuante, sia per la lunghezza, che per la condizione pessima delle strade. Approdati con un piccolo motoscafo su una delle migliaia di isole abitate dalle tribù degli Uros, mi viene mostrata la totora, una specie di erba che cresce sul fondale del lago dal quale, dopo un ciclo naturale di crescita, si staccherebbe a grosse zolle fino ad emergere sotto forma di isole galleggianti. Le popolazioni che vivono qui, la utilizzano come cibo e come materia prima per costruire le imbarcazioni e le proprie abitazioni. Su invito del capotribù ne ho carpito un filo e l’ho assaggiata: ricorda il sapore dolce e carico di acqua dei nostri fili d’erba appena strappati alla terra. La totora insomma è la manna che rende possibile la vita su questo immenso lago che, a quasi quattromila metri di altitudine, per effetto della rifrazione della luce, offre alla vista un paesaggio limpidissimo e l’illusione ottica di credere che le montagne che lo circondano siano molto più vicine di quanto siano nella realtà.
Proseguiamo il viaggio, inerpicandoci fino a quasi cinquemila metri di altezza. Le orecchie si chiudono, tentando una compensazione per l’alta quota; l’aria diventa rarefatta e ho difficoltà a compiere i gesti che ad altitudini più basse appaiono scontati. Ogni passo richiede una grande energia, vado in affanno al minimo movimento e la testa mi gira, come se perdessi l’equilibrio. Wilma mi osserva con la coda dell’occhio cercando di cogliere il livello di difficoltà cui il mio corpo è sottoposto, quindi mi si avvicina sorridente e porgendomi una foglia di coca e un pezzetto di calce, mi dice di masticarli finché non sentirò il succo riempirmi la bocca e di non preoccuparmi dato che, presto, mi sentirò molto meglio. La coca ha un sapore davvero spiacevole, è amara come il fieno e vischiosa come il catrame ma dopo qualche secondo mi pervade un’intensa energia, ho la bocca completamente anestetizzata e ho riacquistato la mia abituale funzionalità motoria.
Incredibile come ogni zona del mondo sviluppi specie botaniche adatte a consentire la vita e il benessere delle specie animali che lì attecchiscono, uomo compreso.
Non è forse vero che la volontà di vedere qualcosa di più grande che ci sovrasta e al quale possiamo affidarci in rassicurante abbandono, è figlia della fragilità umana o, peggio, di quella presunzione che ci porta ad attribuire valore ed importanza al nostro insignificante essere nel mondo?
Eppure anche il popolo Inca, nel suo breve e oscuro passaggio sulla terra, sembra avere cercato qualcosa oltre il semplice riduzionismo biologico. Le rovine mastodontiche di Pisaq, nella valle sacra dell’Urubamba, comunicano, oltre che un rispetto reverenziale nei confronti della terra, qualcosa di più profondo, come la ricerca di una grandezza intangibile che il volto di Viracocha scolpito sulla montagna, di fronte ai terrazzamenti vertiginosi di Ollantaytambo, continua a rivelare, nello sguardo di pietra diritto verso il cielo.
I discendenti degli Inca, che oggi incontri nei coloratissimi mercati dove vige la legge del baratto e che offrono con dignità e orgoglio i prodotti del proprio ricco artigianato: dalla lana di alpaca lavorata finemente, alle preziose pietre sacre dell’Urubamba trasformate in monili, mantengono nel fondo dei propri occhi, l’eredità spirituale dei loro antenati.
Trasportata dall’intuito, in uno di quei momenti in cui ti pervade la sensazione che stia succedendo qualcosa di importante, ho avuto la fortuna di incrociare lo sguardo di due uomini Inca, che al mercato di Chivay vendono pietre che loro stessi lavorano.
Soffiando dentro le mani messe a coppa, per poi allargare le braccia verso il cielo, mi hanno mostrato l’atteggiamento che dovrebbe guidarci lungo la nostra esistenza. Dobbiamo lasciare andare le cose al vento, poiché disperdendole, possiamo mantenere un cuore puro. Mi hanno regalato una pietra nera e trasparente raccolta lungo il sacro fiume Urubamba.
Ancora oggi ho impressa nella mente l’immagine dei loro occhi, scuri e profondi incorniciati dalla serenità del loro sorriso e preservo nel cuore quel delicato incanto che è l’inconfondibile maniera peruviana di affrontare il mondo.
Il Perù è intriso di vibrante spiritualità nonostante lo scetticismo che a volte provo circa questa dimensione dell’essere, così sfuggente e azzardata.
Mentre altaleno tra il rifiuto e il fascino provocati dall’emergere di prospettive così diverse dalle mie, il fuori strada guidato dal fido Ricardo, arriva a Cusco, imponente città a forma di Giaguaro, costruita sopra maestose rovine Inca. La città è fresca in questo periodo dell’anno (d’Agosto qui è inverno) e sebbene di giorno la temperatura sia paragonabile ad una nostra primavera tiepida, la sera, la colonnina del termometro scende velocemente fino a temperature vicine allo zero. Cusco è una città viva, immersa nell’abbraccio delle montagne andine e da queste, protetta. Se si amano le tracce di chi ha viaggiato prima di noi su questa terra, ci si stupirà dei siti archeologici che si possono visitare nei dintorni.
MACHU PICCHU
Sacsayhuaman, una città fortificata da blocchi di pietra ciclopici e meravigliosamente squadrati, rivela la perizia architettonica degli Inca. Il centro stesso di Cusco è pieno di queste mura mastodontiche sopra le quali, sono state erette quelle moderne, ad opera dei colonizzatori. Ironicamente, le mura postume, sono state definite mura erette dagli Inca-paci, per differenziarle da quelle più antiche erette dagli Inca. Il gioco di parole creato da questa definizione rende perfettamente l’enorme divario tecnico e architettonico che le separa.
Tambomachay, un complesso di mura costruite per convogliare le acque montane a fini religiosi, poco fuori Cusco, mantiene una sacralità particolare, come i complessi di grotte e strutture ipogee di Qenqo, più ombrose ma altrettanto affascinanti. Nelle depressioni naturali, formate dalle rocce che compongono i templi di pietra, vi si possono scorgere avanzi recentissimi di foglie di coca, bruciate ancora oggi a scopo propiziatorio, seguendo i vecchissimi rituali in onore a Pachamama, la Dea Terra peruviana, in barba alle disposizioni di legge delle autorità che vietano tali pratiche.
Ma c’è un posto che più di ogni altro preserva l’anima Inca. Nonostante l’affluenza di turisti, spesso poco rispettosi della sacralità di questa cittadella, la sua posizione totalmente immersa nelle montagne che si stagliano diritte e boscose verso il cielo mostrando paesaggi mozzafiato, la rende ancora vibrante di energia.
E’ Machu Picchu. Una città fuori dal mondo. Raggiungibile con un autobus da Aguas Calientes cui invece si arriva tramite un trenino che si snoda come un serpente nella fitta foresta, Machu Picchu ha un fascino indescrivibile. Passeggiare tra le case, in mezzo alle strade, fino a raggiungere la pietra sacra dell’Intiwatana, altare scolpito nel granito con la funzione di misurare il tempo e predire i solstizi, preziosi per la corretta programmazione agricola, regala un’emozione al limite della commozione. Sono convinta che questo sia un punto di straordinario potere magnetico.
Le culture pre-incaiche che qui dimorarono, forti delle loro conoscenze di astronomia, delle loro competenze circa la successione dei cicli stagionali e del loro stretto contatto con la natura, dovevano essere perfettamente al corrente delle potenzialità di questo luogo. Vivere qui dovrebbe essere stato come abitare nel nido del condor e, pervasi dalla magia delle altezze vertiginose, sentirsi più vicini a Dio.
Lascio il Perù a malincuore. Questi posti mi hanno tessuto dentro una ragnatela di emozioni intense, intrise di pace e serenità. Il popolo peruviano è ancora in grado di parlare la lingua del cuore e dello spirito, mi dico, mentre all’aeroporto di Lima, Wilma mi saluta con intensità, lasciandomi al mio destino.
Volo verso l’arcipelago delle isole Fiji: centinaia di meravigliosi affioramenti di origine vulcanica, sulla superficie dell’Oceano Pacifico. Se pensate che le foto dei paradisi naturalistici pubblicizzati dalle compagnie di viaggio siano il frutto di ingannevoli ritocchi di Photoshop, vedere questo incanto della natura vi farà ricredere.
Vi assicuro che è tutto vero. I coralli, il mare blu cobalto, le refrigeranti cascate d’acqua delle foreste pluviali. L’unica cosa che non potete cogliere da una foto è la cappa d’afa, alquanto fastidiosa, che rende il respiro affannoso e ogni cosa che toccate appiccicosa. Ma c’è un rimedio a questo inconveniente: lo snorkeling. Se come me, non amate lanciarvi nella faticosa avventura delle immersioni o in quella ancora più intrepida del surf, potrete restare per ore intere comodamente adagiati sulla superficie dell’acqua, armati della sola maschera e del boccaglio. Preparatevi ad incontri ravvicinati con razze, tartarughe, pesci pappagallo e tutta una fauna variegata e colorata che vi nuoterà intorno, indisturbata dalla vostra presenza.
ISOLE FIJI
Passerò questi dieci giorni a Nananu-i-Ra, un’isoletta di tre chilometri quadrati appena, dal caratteristico paesaggio di insenature frastagliate, ampie spiagge e dolci colline verdeggianti. Mi muoverò a piedi, visto che non ci sono strade né villaggi, felicemente immersa in un paesaggio selvaggio di sublime bellezza. Oltre la costa, le catene montuose di Viti Levu, l’isola principale, si stagliano verso il cielo. L’acqua dell’Oceano che qui chiamano mare di Koro è di un colore cobalto che lascia senza fiato e, ancora di più, lo sono le striature della barriera corallina che la impreziosiscono come un gioiello di rara bellezza.
Se è vero come si dice, che ogni posto ha un proprio odore, qui ti accompagnano le pungenti note olfattive del sale. Che non è quell’impercettibile aroma di salsedine che puoi annusare in una giornata estiva, sui blandi lidi del Mediterraneo. No, no. E’ qualcosa di molto più intenso e arcaico. E’ l’odore dell’oceano, delle sue immense profondità e di tutte le vite che ha in seno, mescolate dal ritmico fluire delle onde e della risacca. In realtà, ti abitui quasi subito a quell’odore tanto che non ci fai più caso, come succede per tutte le consistenze naturali e innocue. Solo più tardi, quando lascerai quelle isole, ti accorgerai di averlo ancora addosso, sulla pelle.
Sebbene molti turisti prendano la visita di queste gemme coralline, come inestimabile occasione di relax, questi luoghi offrono un’opportunità ben più interessante: trovare sé stessi.
Con uno di essi, Cakobau, ho conversato a lungo. Figlio di una famiglia di cinque fratelli, tutti pescatori, mi ha spiegato che pescare è un lavoro pericoloso perché il mare è infestato da squali, ma è sufficiente, prima di andare a pesca, versare nell’acqua del mare una ciotola di bevanda magica: la Kava, in onore del dio-squalo Dakuwaqa, e si può stare tranquilli che gli squali ti lasceranno in pace. Incuriosita dalla storia ma ancora di più dalla bevanda magica, chiedo se c’è modo di assaggiarla. Cakobau mi dice che le radici della pianta usata per la preparazione della bevanda, una specie di pianta del pepe, devono stare per un certo periodo in ammollo prima che sia pronta per essere bevuta. Per questo, mentre un suo amico si accinge a prepararla, mi invita a fare un giro sulla sua canoa in legno di sandalo. Mi mostrerà la sua bella terra. Remando per una mezzora circa, mi racconta un’infinità di leggende. Poi, a un tratto, mi fa segno di fare silenzio, mentre la canoa si ferma al largo di una delle isole più grandi dell’Arcipelago: Kadavu, in prossimità del villaggio Namuana. Sulla riva, in lontananza, vedo alcune ragazze del villaggio avvicinarsi al mare intonando un canto particolare dalla melodia malinconica. Qualche minuto dopo, sulla superficie del mare, affiorano lentamente una gran quantità di tartarughe giganti. Non posso credere ai miei occhi. Cakobau mi spiega che il canto, tramandato di generazione in generazione, è un richiamo per le tartarughe sacre che si presentano solo qui, a Namuana, e soltanto su invito delle ragazze del villaggio che, pertanto, hanno il privilegio di questo immenso potere.
Ancora incredula per quello che mi sembra un miracolo cui ho avuto la fortuna di assistere, Cakobau mi porta a pranzo dal suo amico, presso il quale assaggerò, finalmente, la magica Kava. Entriamo in un bungalow ampio e accogliente. Le pareti sono addobbate in maniera festosa da una gran quantità di fiori del pane. Su un tavolino basso attorniato da stuoie e cuscini, sono appoggiati numerosi piatti a base di pesce e verdure. Ci sono molluschi, gamberoni e polpi, tutti pescati la mattina stessa. L’amico di Cakobau, dal nome impronunciabile, è un omone alto e robusto, con capelli scuri e ricci e un gran nasone a patata. Ha uno sguardo sorridente e una voce profonda. Di atteggiamento mite, come la maggior parte dei fijiani, ilare e sorridente, mi fa segno di sedermi e servirmi da sola. Mangiamo a volontà saziandoci del sapore setoso dei molluschi, di quello asciutto e dolciastro dell’aragosta e delle consistenze croccanti delle verdure appena cotte a vapore. Terminiamo il pranzo con deliziosi mango e dolcissime banane. Quindi arriva l’ora della Kava. La bevanda, portata in un grosso recipiente e poi offerta in coppette ricavate da noci di cocco, sembra fango, sia all’aspetto che al sapore. Ha un leggero retrogusto di liquirizia, pungente e aspro. Ma, soprattutto, ha un effetto calmante che spiega il motivo per cui viene offerta al dio-squalo, prima di pescare. L’intenzione è quella di sedarlo. Scopro, infatti, che il principio attivo che ne sta alla base è un ansiolitico naturale. I fijiani ne bevono quantità incredibili e ne offrono a chiunque. Se la assaggi, diventi con più facilità loro amico.
FIJI PEOPLE
La sera, quando rientro al bungalow accompagnata in canoa da Cakobau, alcuni fijiani arrivano da un’isoletta vicina, nel buio completo. Sono vestiti con i caratteristici gonnellini in paglia e foglie di banano. Hanno un solo scopo: divertirsi e cercare compagnia. Sono allegri, sorridenti e spontanei e amano condividere con i turisti un pezzo del loro mondo. Con loro ho danzato, cantato e riso, senza altro scopo oltre il desiderio di conoscersi e stare insieme. Il giorno dopo sono stata ospite nella la loro isola. Per l’occasione hanno cucinato utilizzando una pratica limitata alle occasioni speciali: il lovo o forno interrato. Mentre alcuni uomini davano fuoco ad una pira di grossa legna e rocce accatastate, altri scavavano una buca che hanno poi riempito di cibi diversi: pesce, maiale, pollo e patate dolci, tutti singolarmente accartocciati in foglie di banano. Hanno poi appoggiato le rocce roventi e gettato le braci sopra i cibi lasciando che si cuocessero così fino all’ora di cena, quando hanno iniziato a dissotterarli. Quella sera ho mangiato uno dei piatti più antichi che l’uomo è ancora in grado di preparare. Di certo, uno dei più deliziosi.
Il paradiso in cui sono immersa sembra dimostrare che è possibile vivere in maniera pacifica e tranquilla. Ma l’apparenza può ingannare.
Dietro ai sorrisi e alla giovialità dei fijiani, infatti, si nasconde un passato burrascoso. Periodi di guerre e violenza che hanno reso celebri queste isole per la pratica del cannibalismo, fortunatamente oggi non più in uso. In un passato non così remoto, le tribù avevano l’abitudine di mangiare i nemici sottomessi, pensando in questo modo, di acquisirne la forza e il coraggio. Di questa storia fatta di guerre, di pratiche tribali spaventose e di un modo tutt’altro che allegro e ingenuo di vivere, se ne scorgono le tracce nelle danze di guerra che i fijiani mettono in scena la sera, intorno al fuoco, quando ripropongono la storia dei propri antenati danzandola, affinché non venga dimenticata.
Lasciare questo paradiso non è semplice. Ci si abitua molto velocemente ai ritmi lenti della natura, ai sapori genuini di questo mare corallino e ai lunghi, intensi silenzi. Cakobau, molto gentilmente, mi accompagna all’aeroporto. Lo saluto con una stretta di mano. “Sorridi e sii felice” mi dice, ricambiando il mio gesto formale con un sorriso caldo e divertito.
L’aereo atterra a Phnom Penh. L’impatto con la Cambogia è forte. Le temperature, in agosto, sono molto elevate e l’umidità raggiunge livelli del novanta per cento. Per questo, che tu ti muova o che stia immobile, sudi copiosamente e senza sosta, inzuppando tutto quello che indossi.
La pesantezza dell’aria però, non dipende solo dal clima ma è, anche, un fattore storico. La coltre vischiosa del passato recente, pesa infatti a tal punto sui cambogiani, che ancora oggi, a distanza di trenta anni, qui si vive in uno stato di indigenza pressoché assoluta, immersi in una condizione di totale indolenza.
Le strade sono gremite da un’umanità segnata e amputata dal regime di Pol Pot, dalla quale solo il violento scroscio dei monsoni riesce a distogliermi.
In appena cinque minuti, la pioggia allaga le strade prive di fognature, i bambini escono a giocare e a fare il bagno lungo le vie, schiamazzando e impedendo il passaggio alle vetture. Mi invitano a festeggiare con loro. Mi cattura la loro voglia di giocare e divertirsi con semplicità, riuscendo ad annullare lo squallore e la miseria in cui sono immersi. Qualche minuto dopo, appena il cielo si riapre, ho la sensazione che l’aria sia stata pulita della polvere che la appesantiva. Ma non faccio in tempo a formulare questo pensiero che già contro i raggi del sole, ballano impazzite miriadi di particelle. In un attimo tutto è come prima: lo sporco, il caldo, la sensazione di pesantezza.
Le strade si riempiono di nuovo di monchi di tutte le età, vittime innocenti delle migliaia di mine antiuomo che disseminano ancora il territorio Cambogiano. Ovunque, nelle zone boscose, cartelli di pericolo invitano a non mettere piede in zone a rischio in quanto non ancora disarmate dagli ordigni micidiali.
Noto che la popolazione è molto giovane. Il cinquanta per cento circa, infatti, ha un’età inferiore ai sedici anni poiché lo sterminio di massa degli anni 1975/79 è stato rivolto in maniera mirata alla classe politica, filosofica e culturale che oggi avrebbe avuto cinquanta/sessant’anni.
WAT PHNOM
Trasportata da un risciò, in direzione di Wat Phnom, il tempio più antico della città, in mezzo ad un traffico congestionato da centinaia di motorini guidati da bambini scaltri e imprudenti, sento un senso di vuoto che mi scava dentro, come una nuvola di scoraggiamento e depressione che mi rattrista. Nel parco sotto il tempio, tra scimmie che si rincorrono e litigano e ragazzini che trascorrono indolenti tutta la giornata, mi fermo ad assaporare la consistenza al contempo dolce e amara dei frutti del fior di loto, molto simile a quella della fava. Passeggiando tra venditori ambulanti che per qualche moneta liberano gli uccellini poco prima strappati alla libertà del sottobosco, realizzo il motivo di questa sensazione di disagio.
La Cambogia è priva di una classe storica che la guidi con saggezza. E’ come se le mancassero le fondamenta necessarie a definire una propria identità e a programmare lo sviluppo e l’evoluzione della nazione. Con il regime è stato sradicato un sistema di valori, di credenze e tutto un sapere che era ciò che dava spessore al Paese e ne definiva la personalità.
Anche dentro i templi buddisti, sovraccarichi di ornamenti, statue, tappeti e colori, si percepisce una mancanza difficilmente definibile, come se la religione stessa avesse perso la capacità di guidare l’uomo e il rituale della preghiera fosse stato spogliato del proprio potere spirituale.
Vengo distolta dai miei pensieri dal ragazzo che guida il risciò che mi vuole portare al mercato russo perché io possa acquistare tutto quello che desidero. Sorrido all’idea che anche qui, lontana migliaia di chilometri dalla logica del consumismo, io non sfugga al suo ingranaggio soffocante e riduttivo. Ma l’idea di muovermi in mezzo alla gente del posto mi entusiasma.
Così faccio un’altra esperienza fondamentale: l’odore della Cambogia che poi scopro essere l’odore dell’Asia. Poiché, chi conosce questo continente, gli attribuisce un’identità olfattiva tipica.
E’ un odore di sporco, incenso, carne e sangue. Lo definirei primordiale. Ogni cosa sa di sé stessa, fino in fondo. Così, addentrarsi tra le bancarelle di Phnom Phen è come riscoprire i veri odori delle cose. La carne per esempio, sa di ciò che è, vale a dire, di morte. Il pesce essiccato invece, emette un odore difficilmente sopportabile dalla sensibilità olfattiva occidentale, abituata ad una realtà edulcorata.
Nelle vie principali della capitale, lungo la bella passeggiata che fiancheggia lo scorrere lento del fiume Mekong, dove i bambini fanno il bagno nonostante la sporcizia, di fronte alla ricchezza del palazzo reale che racchiude stupa, statue di Budda e serpenti Nagal ad ornamento del potere, si vendono cibi tipici di questo paese: cavallette, formiche, bachi, grilli, ranocchiette, scarafaggi, tarantole, serpenti, feti di anatre. Tutti rigorosamente fritti. Sotto enormi alberi di tamarindo, che riparano dai forti raggi del sole, fa mostra di sé una gran quantità di frutta esotica dal sapore dolcissimo: arance e pompelmi di Battambang, ananas e banane di Siem Reap. Più oltre, i piccantissimi noodles vegetariani di Phnom Penh e la torta di riso fritto, che sono tra i cibi forse meglio digeribili dalla nostra cultura.
Con Kong, la guida che ho assoldato, abbiamo attraversato la campagna Cambogiana in direzione di Kratie. Qui il paesaggio sembra irreale. Completamente sommerso dall’acqua, data la stagione delle piogge, i contadini scivolano lentamente su canoe di fortuna, tra risaie e piantagioni di anacardi, remando con un lungo bastone.
WAT NOKOR
Lungo la strada, carretti in legno trainati da buoi, rallentano il viaggio, permettendomi di osservare meglio il paesaggio. Nei punti più elevati, non ancora sommersi dall’acqua, si lavora la terra spingendo aratri trainati da bufali mentre all’interno di palafitte in legno che costeggiano la strada di terra battuta, si intravedono persone che si lasciano dondolare su amache di fortuna. Facciamo sosta al santuario buddista di Wat Nokor, a Kampong Cham. Il buddismo è forse l’unico appiglio che dona speranza alle anime smarrite e confuse di questo Paese, anche perché è l’unica istituzione in grado di fornire un minimo di istruzione. In Cambogia, infatti, l’unico modo per poter imparare a leggere e a scrivere, è quello di entrare in una comunità rurale buddista e restarvi per cinque anni almeno. I figli dei Cambogiani che se lo possono permettere, vengono mandati in queste comunità per un periodo variabile, al termine del quale, potranno scegliere di restarvi a vita o ritornare nella società e intraprendere una carriera e farsi una famiglia.
Nonostante l’assoluta povertà, il loro bel sorriso mostrato più per imbarazzo che per cortesia, la loro natura quieta e il loro modo leggero di viaggiare lungo l’esistenza, regalano un sentimento di pace che svela la bellezza e la grazia di ciò che sarebbe potuta essere la Cambogia.
Da Kratie, dopo aver sorseggiato un delizioso cocco, ci spostiamo sul Mekong con una barchetta in legno, verso l’isola di Koh Trong. Qui, affittata una bicicletta, ho pedalato per le strade in terra battuta, completamente immersa in una dimensione rurale. Tra una fitta vegetazione di banane e Paradisi, coltivazioni di germogli di soia, ampie risaie e allevamenti di pesci gatto, si scorgono tipiche case Khmer: palafitte in legno abitate da famiglie molto numerose. Una di esse mi ha invitata ad entrare. Ho lasciato le scarpe a terra, come vuole la consuetudine e sono salita, scalza, sulla scala che porta all’ingresso, privo di infissi, così come le finestre. All’interno, una semplice tenda separa l’unico grande vano dalla camera padronale, la sola zona a godere di un po’ di privacy. Non c’è nessun tipo di mobilio dato che questo spazio è polivalente: si mangia seduti a terra e si dorme tutti insieme, sdraiati su una semplice coperta. La vita in realtà, si concentra all’esterno della casa, proprio sotto di essa, tra le colonne di legno che sorreggono la struttura stessa della palafitta. Qui si allevano le galline, le vacche, i porcellini. E sempre qui, si parla, si lavora, ci si rilassa, almeno finché non arriva il fiume Mekong a coprire parzialmente la terra con la stagione dei monsoni che, tra agosto e dicembre fa aumentare di oltre un metro il livello dell’acqua. Il padre di famiglia mi ha offerto un dolce tipico a base di farina di riso e zucca, ripiegato dentro una foglia di banano, dal sapore caramelloso e appiccicoso e un pompelmo enorme e succoso. Dopo una giornata intera in cui mi sono riempita gli occhi del verde intenso di questa vegetazione e della squisita ospitalità dei cambogiani, riconsegno la bicicletta a malincuore e riattraverso il Mekong all’imbrunire, nell’atmosfera ferma e sospesa che solo il tramonto sulla superficie perfettamente liscia dell’acqua sa regalare.
SIEM REAP
Il giorno seguente ci muoviamo verso Siem Reap, attraverso coltivazioni di caucciù.
Le cortecce degli alberi della gomma sono incise secondo un disegno a spirale che scende lungo il tronco. Alla base, è fissata la sezione di un piccolo tubicino in metallo, cui è appesa una piccola ciotola che raccoglie la secrezione gommosa che qualcuno viene a svuotare un paio di volte al giorno. Prendo in mano la pasta giallognola che si è depositata in fondo alle ciotole. E’ colla a tutti gli effetti, ha la stessa consistenza del vinavil, cambia solo l’odore: stranamente sa di pesce.
Finalmente arriviamo a Siem Reap dove potrò visitare il famoso complesso dell’antica città di Angkor, datata ottavo/nono secolo dopo cristo.
Le centinaia di Budda in pietra che da Angkor Thom osservano con distacco il brulicare dell’umanità, insieme al silenzio del tempio Taprohm, immerso nella giungla e quasi stritolato dalla potenza degli alberi, parlano di un passato glorioso dal quale giunge ancora oggi l’eco della misteriosa serenità dell’Asia.
Di quel passato, purtroppo, non sembra essere sopravvissuto granché. Sulla via del ritorno, seduta in un ristorante cinese che qui offre il cibo di livello più elevato, mentre fitte colonie di formiche si arrampicano sul tavolo e un bastardino lecca da terra gli avanzi di cibo che sono lì da tempo immemore, ho assistito alla scena surreale di un uomo in pigiama, con la sigaretta in una mano e la colonnina della flebo nell’altra, che passava con nonchalance davanti al ristorante. Ho creduto, per un momento, di aver perso la ragione ma poi, uscendo, tutto si è chiarito. Adiacente al ristorante, all’interno di un garage di trenta, quaranta metri quadri al massimo, era allestito un tipico ospedale cambogiano: senza porta, due file di quattro brande disposte a ridosso della parete di destra e di sinistra, separate l’una dall’altra da un lenzuolo in cotone. Dai letti, sdraiati o seduti, ammalati di ogni sesso ed età osservavano lo scorrere della vita al di fuori dell’ospedale/garage. Alcuni di essi evidentemente terminali, altri con un semplice cerotto in fronte. In fondo alla stanza, una piccola scrivania necessaria a svolgere le essenziali funzioni burocratiche. Subito dietro, un mobiletto a due ante, in vetro, vicino ad una porticina sgangherata colmo di scatole di medicine ammassate senza ordine e logica.
La Cambogia ti mostra la realtà nuda e cruda, senza bisogno di nascondere le cose che non vanno. E’ al contempo ingenua e spietata, leggera e controversa, corrotta e serena. E proprio in questi contrasti, risiede il suo fascino.
La classe politica coincide ancora, in parte, con quella militare del periodo di Pol Pot. Nessuno infatti, è stato incolpato e punito per le ignominie commesse, al contrario, alcuni importanti personaggi politici che oggi sono alla guida del Paese, appena trenta anni fa erano nelle fila del regime polpottiano, a seminare distruzione e terrore.
La forbice della ricchezza è paurosamente allargata. Gli unici ricchi, oltre alla classe politica e militare, sono i cinesi, che qui vengono a investire in due settori principali: quello edile e quello turistico e ristorativo.
In realtà, la maggior parte della popolazione, vive senza nessun possedimento, in assoluta povertà. Avere una vacca, per esempio, è segno di ricchezza. Sebbene io non abbia mai visto vacche magre come in questa nazione, esse sono essenziali per lavorare la terra. Così, se come spesso succede, una di esse dovesse finire sotto le ruote del suv di un militare, che sfreccia sulla strada ad una velocità impressionante, quasi volesse sfuggire alla realtà di miseria che lui stesso continua a perpetrare, verrebbe compianta più della morte di un figlio.
Anche allora, infatti, occorre la volontà per compiere questo viaggio della vita, abbandonando il grigiore e il pessimismo che così facilmente diventano compagni di viaggio. Negli occhi dei cambogiani scorgo quella scintilla di innocenza e quel candore che noi, in occidente, abbiamo perduto. Mi affido a questi elementi per far sbocciare la speranza.
SORRISI
Lascio la Cambogia con sentimenti contrastanti che mi si agitano dentro. C’è il sincero augurio che questa terra si risollevi e inizi di nuovo a scrivere la propria storia; c’è la rabbia per la mancanza di orgoglio, interesse e volontà necessarie a prendere in mano la propria vita e farsene carico responsabilmente; c’è la gioia di vedere che il terrore Khmer non è riuscito ad intaccare il sorriso dei Cambogiani, ancora oggi così dolce e struggente; c’è la delusione di constatare la mancanza del desiderio di evolvere e di riscattarsi poiché le tante associazioni umanitarie occidentali che qui si battono per affermare il diritto alla vita e per restituire dignità a questo popolo, vengono sfruttate senza il desiderio di imparare, di portare avanti progetti di sviluppo ed emancipazione in autonomia.
La ricostruzione di questo Paese è la sfida più elevata che i cambogiani sono chiamati ad affrontare la riuscita della quale, in qualche modo, segna la possibilità di trascendere la miseria e la cattiveria dell’uomo.
Durata: 8 giorni / 7 notti
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