Di passaggio

di Simona Colombo

Da una locanda in Cile durante ritornano in mente ricordi di viaggi passati: Thailandia, Sumatra, Australia

Locanda in Cile

Ho scelto un tavolo accanto alla finestra. È una bella ragazza cilena che mi serve il tè. Niente scalda come una tazza di tè. Qualcuno beve Guindado, il liquore che da queste parti si ricava dalla fermentazione delle amarene, io ho ordinato un tè e mi godo quel piacere infantile di essere al riparo mentre fuori piove e puoi concederti di contemplare la tempesta oltre i vetri.

Mi sembra già di sentire il canto delle balene che incontrerò domani e immagino i loro maestosi corpi lucidi che scivolano negli abissi alzando bufere con la coda. Odore di salsedine strappata dal vento alla spuma delle onde insieme alle leggende di questo luogo alla fine del mondo. Storie di esploratori e naufragi qui come sulla Great Ocean Road in Australia. Spiriti che percorrono il mondo trasportati dai venti. La tempesta è solo di passaggio, come me, ma un vago profumo di neve mi fa stringere le mani intorno alla tazzina.

Qui comincia la fine del mondo, si ha la sensazione di essere arrivati in fondo alla strada, oltre c’è solo l’Antartide e lì è come un altro pianeta. Così viene spontaneo tirare le somme, ripensare a come diavolo sono arrivata fin qui.

Non si tratta solo della strada tracciata sulla cartina della Patagonia, ma quella disegnata a matita dal destino sulla mappa della mia vita. Una linea leggera, che si legge a fatica, che parte dai racconti d’avventura ascoltati nell’infanzia e passa per l’aeroporto di Malpensa in un giorno di fine febbraio che nei miei ricordi sembra freddo come questo. I ricordi e i sogni si confondono in questa tazza di tè, non saprei dire quanto ci sia di reale nella mia memoria, quanto la fantasia finisca per colorare le immagini che mi tornano in mente.

Se in questo momento aprissi lo zaino per prendere la macchina fotografica e se anche riuscissi a catturare un’immagine di questo cielo tempestoso, non potrebbe mai essere bello come vivere questo momento, a questa finestra, con questi pensieri.

Un viaggio comincia con la nostra aspettativa, il modo in cui guarderemo quello che incontreremo dipende dall’idea che ne abbiamo prima di partire. Molti luoghi mi sono parsi familiari perché mi tornavano in mente romanzi, canzoni o film ambientati proprio laggiù, in altri luoghi, invece, ho perso il fiato per lo stupore.

Prendo il diario e la matita, scrivo sempre a matita perché l’inchiostro delle penne finisce, secca, macchia, scende a tratti; la matita invece scrive in ogni condizione, perfino nello spazio. Prima di trovare una pagina bianca per raccontare di questa tempesta, sfoglio quelle precedenti così cariche di esperienze e sogni che pesano tra le dita. Sembrano scritte da una persona diversa, in effetti, se ci penso, ero una persona diversa quando sono partita ed è naturale. Il viaggio insegna e come disse Einstein “La mente che si apre ad una nuova idea non torna mai alla dimensione precedente.”.

Ho preso l’abitudine di conservare i tagliandi dei biglietti aerei in una busta sotto la copertina del diario, una piccola collezione disordinata dei luoghi in cui sono passata. Ecco il primo biglietto: Milano – Bangkok in un lontano giorno di febbraio.


Diario: l’arrivo in Thailandia

Ho comprato il biglietto aereo meno costoso e sono scappata: eccomi improvvisamente a Bangkok. Non credevano che sarei partita davvero e invece… Qui nessuno mi conosce, sono tranquilla e posso essere chi mi pare.

A Milano nevicava, Bangkok è calda come stirare a ferragosto e per la maggior parte del tempo si sente una gran confusione, un gran caldo, una gran puzza di cibo e motorini. Attraversare la strada è una sfida. I semafori agli incroci più grossi hanno un display che fa il conto alla rovescia così si sa quanto manca al verde o al rosso o alla tua morte. Questa è una tipica grande città asiatica che al primo impatto stordisce come l’allarme di un antifurto, ma poi rivela i suoi angoli preziosi e allora diventa magica.

La prima sera ho cenato in quello che credo il più piccolo ristorante del mondo: tre tavoli dentro, tre tavoli sulla strada. L’ho trovato prendendo una scorciatoia dall’albergo al mercato e la signora che lo gestisce è stata così simpatica e i piatti così abbondanti, buoni ed economici che ci sono tornata ogni sera. Occupando uno dei tavolini esterni, ho mangiato osservando la vita di quartiere: la vecchina seduta dietro la bancarella dall’altra parte del vicolo che non ho ancora capito bene cosa venda; l’anziano figlio dei fiori americano che chiacchiera con un amico e una bella donna indiana; ragazzine con la divisa della scuola e il cellulare che passano ridendo e ragazzini con pettinature scolpite in forme e colori da cartone animato; gatti randagi e famigliole di turisti francesi con bambini al seguito. Qualche ora di pura Bangkok, un po’ sporca, un po’ poetica sotto la luna piena.

Durante il giorno, per trovare riparo dall’afa e dal rumore, m’infilo nei giardini di qualche tempio ed è come lasciarsi il mondo alle spalle. Ombra, silenzio, pace. Bangkok è piena di templi, grandi e piccoli, più o meno famosi, ma tutti affascinanti e decorati con colori preziosi come oro, smeraldo e rubino. Statue gigantesche mi osservano come io osservo loro e mi vengono in mente storie di altri tempi, storie di regni e intrighi, di conquiste e tesori, di viaggi lunghissimi attraverso lande desolate. Si pensa che la Thailandia, ormai invasa dai turisti, abbia perso la magia di quelle storie eppure è sufficiente abbandonare le vie più trafficate per viaggiare indietro nel tempo e ritrovarsi in un romanzo d’avventura. Un piccolo passo dentro quel famoso e lontanissimo Oriente che da secoli affascina gli esploratori con le sue fiabe di spade e di seta. Mi è bastato ritrovarmi circondata dai volti di queste persone, incontrare occhi a mandorla e lineamenti asiatici così facili da associare ai racconti di Marco Polo. L’Oriente è un immenso palazzo con stanze aperte e stanze segrete, con giardini meravigliosi e oscuri sotterranei, con le montagne più alte del mondo e foreste percorse da elefanti e guerre, con infinite risaie e grandi fiumi che scorrono lenti attraverso le stagioni monsoniche, con templi inaccessibili che custodiscono misteri millenari e il caldo Oceano Indiano che a volte accarezza e a volte colpisce in modo devastante migliaia di chilometri di coste. Un piccolo passo, il mio, in un mondo di grandi e antiche distanze. L’Oriente ha così tanto da raccontare che questo piccolo passo mi fa già sentire le vertigini.


Diario: viaggio verso Nord

Ho preso il treno per Chiang Mai, dodici ore verso nord attraverso paesaggi e secoli. La vita scorreva dietro i finestrini mentre accanto a me sedeva un anziano ex militare australiano che mi parlava della sua vita, anche quella degna di un film. Lanciavo occhiate alle risaie mentre John, l’australiano, si vantava del fatto che a 78 anni riusciva ancora a bere venti birre al giorno e mi raccontava dei suoi figli di razze diverse.

Mentre mi spostavo verso nord, tutto diventava più verde e fresco, il movimento del treno mi cullava e mi sono appisolata al suono della voce di John sognando elefanti. Già, avevo sempre immaginato le foreste thailandesi come un labirinto di liane e fogliame, alti alberi smossi dal passaggio di elefanti liberi. Non è esattamente così di questi tempi, ma sono riuscita comunque ad incontrare gli elefanti. A Chiang Mai ho comprato un casco di banane e un biglietto dell’autobus chiedendo al conducente di lasciarmi al Thai Elephant Conservation Center, un parco dove i volontari accolgono gli elefanti anziani o malati che vengono abbandonati a loro stessi dopo essere stati sfruttati per il lavoro nei campi o per divertire i turisti. Sono animali meravigliosi che riescono ad essere eleganti nonostante la mole ingombrante. Hanno preso le banane dalle mie mani con le grandi proboscidi usando una delicatezza inaspettata. Ho pensato alla fantasia di Madre Natura nel creare certi esseri viventi: la proboscide è una gran bella idea!

Avvicinare questi pachidermi è stato straordinario, ero felice che si trovassero in un luogo dove le persone si prendono cura di loro e li rispettano. Avevo letto pochi mesi prima un bel libro sugli elefanti nel nord dell’India e mi è tornato in mente mentre passeggiavo per il parco scorgendoli tra gli alberi e nel fiume. Moltissimi animali subiscono grandi ingiustizie in ogni parte del mondo, ma ci sono luoghi come questo dove gli esseri umani si fanno un po’ perdonare. Pensavo a tutto questo mentre aspettavo l’autobus per tornare a Chiang Mai. Ovviamente cominciò a piovere perché ogni viaggio che si rispetti è denso di imprevisti. Fortunatamente l’autobus non si è fatto attendere a lungo, ma non c’erano posti liberi così, pur di non lasciarmi sotto la pioggia, il conducente mi ha fatto sedere sui gradini davanti alla porta. Ecco un’altra cosa che le fotografie non raccontano: la gentilezza che ho trovato in Thailandia.

Mi è capitato di chiedere informazioni sulla direzione da prendere per un certo posto a qualcuno che mi capiva, ma non sapeva darmi indicazioni in inglese, così piantava quello che stava facendo e semplicemente mi ci accompagnava. Ho anche assistito a una scena che dalle mie parti sarebbe stata fantascienza: un tizio ha chiesto all’autista di un taxi collettivo, un furgoncino di quelli che ti fanno salire dove vuoi e ti lasciano dove vuoi, di caricare per un passaggio lui, la fidanzata con i sacchetti della spesa e il suo motorino. Nessun problema: sono scesi anche gli altri passeggeri per dare una mano a sollevare lo scooter, issarlo sul tetto del taxi e legarlo. La cosa strabiliante è che per tutta la durata dell’operazione, cioè diversi minuti, nessuno si è minimamente lamentato del tempo perso. Ve lo immaginate a Milano? Fantascienza, appunto.

Tra le chiacchiere di John sul treno, mi aveva colpito il racconto della risalita via fiume da Chiang Rai, raggiungibile in autobus da Chiang Mai, a Tha Ton. Non era nei miei programmi, ma una mattina ho pensato di seguire quella nuova linea disegnata dal destino che mi aveva fatto incontrare il vecchio australiano. Dunque sono partita per questetre ore di navigazione sul fiume Mae Nam Kok. Era una piccola imbarcazione quella che scivolava sull’ampio fiume verde trasportando me e altri quattro passeggeri. Mi sono tolta le scarpe e accomodata sulla stuoia all’ombra della pensilina e in un attimo ecco una sensazione perfetta: stare a piedi nudi sul fondo fresco della barca e guardare scorrere il paesaggio nell’aria fresca. Ho scambiato poche parole con gli altri perché tutti volevano godersi la pace di quelle ore. Sulla riva ho osservato villaggi con case di legno, bufali che facevano il bagno per il caldo, bambini che al nostro passaggio si tuffavano dalle rocce e dagli alberi e ci salutavano sorridendo.

Il tempo è volato e mi è sembrato di essere arrivata a Tha Ton troppo presto. Sbarcata, mi sono messa in cerca di un ristorante per pranzare. Mi sono infilata in un piccolo locale con vista sul fiume, ero l’unica turista. È una strana sensazione quella che mi prende quando negli occhi di chi mi circonda leggo la domanda “Perché sei qui?”. È uno sguardo che nessuno ti rivolge nel tuo Paese perché quella è casa tua, ma a Tha Ton io ero la straniera, l’ospite. Quando mi sono accomodata in quel ristorantino ho sentito gli occhi dei presenti formulare domande silenziose per un istante prima di tornare ai propri affari, mentre la proprietaria, con un gesto gentile, mi porgeva un foglio con poche righe di menù. Mi ha sorriso quando ho fatto la mia ordinazione pronunciando correttamente il nome dei piatti. Quando arrivo in una nuova nazione, la prima cosa che imparo, chiedendo a tassisti o camerieri, è come salutare e ringraziare. La seconda cosa sono i nomi delle pietanze che assaggio. La gente del posto apprezza che qualcuno faccia il piccolo sforzo di imparare qualche parola nella lingua locale, è una gentilezza che non mi costa nulla e in cambio ricevo sempre un sorriso che distende la piccola naturale tensione tra indigeno e straniero. Quando si è in viaggio bisogna sempre ricordare di essere ospiti, quindi è doveroso rispettare la casa altrui.

Mentre gustavo il mio riso alle verdure, alla tv davano un incontro di thai boxe che la domenica è seguita quanto il calcio in Italia, infatti ad ogni pugno o calcio si sentivano i tifosi nel locale e in giro per il villaggio esultare o sospirare delusi. Era qualcosa di familiare, qualcosa che si trova ovunque nel mondo davanti a una gara sportiva, che sia il rugby o le olimpiadi, tutto si ferma per veder passare il treno della sfida.

La gita, come l’aveva raccontata John, prevedeva una notte a Tha Ton per ripartire la mattina dopo, ma non potevo restare, quindi presi una via verso il centro del paese in cerca di un taxi per raggiungere Fang e da lì avrei preso l’autobus per tornare a Chiang Mai senza avere la minima idea di quanto tempo ci volesse. Il tempo assume una forma diversa quando si è in viaggio, sembra andare fuori controllo come se a casa fosse confinato dentro una diga, ordinato, stretto in abitudini di cemento armato; in viaggio invece esplode, si libera dagli argini e prende vie inaspettate cambiando continuamente percorso e velocità, accelera quando stai per perdere un aereo e rallenta fin quasi a fermarsi quando ti trovi nel posto giusto. Il posto giusto è scelto dal destino, è un attimo che devi apprezzare senza fretta e il tempo lo sa. Per questo il ritorno a Chiang Mai è durato oltre tre ore attraverso un tranquillo paesaggio di montagna, il posto giusto quel giorno era il sedile di un vecchio autobus in partenza da Fang. Le porte sono rimaste aperte per tutto il tragitto così mi arrivava il profumo dei fiori insieme ad una piacevole aria fresca. Era strano non sapere bene dove mi trovassi né quanto mancasse a Chiang Mai, ma non importava. Ero ancora l’unica straniera, ma anche questo non importava a nessuno. Stanca eppure rilassata mi sono goduta il viaggio, il tramonto, gli incendi di sterpaglie ai lati della strada con il fumo che entrava dalle porte sempre aperte. Nessuno cadeva dall’autobus nemmeno quando curvava sugli strapiombi lungo i tornanti, tutti pagavano il biglietto appena saliti, nessuno faceva storie quando ai posti di blocco salivano militari in mimetica a controllare i documenti, nessuno era in ritardo perché il tempo su quelle montagne era libero di andare e nessuno se ne preoccupava. Un cenno della mano e il conducente si fermava a farti salire, un altro cenno e potevi farti lasciare dove volevi. Niente di male poteva accadere in questa atmosfera serena come una ballata, nella pace della sera che calava sul nostro bus sgangherato, nel silenzio dei passeggeri, tutti immersi nei propri pensieri colorati.

La sera, a Chiang Mai, avevo ancora addosso quella piacevole sensazione di pace mentre passeggiavo tra le bancarelle del mercato settimanale. Erano arrivati venditori da ogni parte della regione con i loro tessuti, le loro spezie, i loro manufatti in legno. Osservavo tutto perché sono curiosa e perché il mattino dopo sarei partita di nuovo lasciandomi alle spalle quell’angolo di mondo che non volevo dimenticare.


Cile, adesso.

Chiudo istintivamente il diario perché mi accorgo che qualcuno è appena entrato nella locanda e mi sta guardando. È Ian, un fotografo naturalista di Auckland in Nuova Zelanda. L’ho conosciuto stamattina in paese, due stranieri nella libreria più a sud del mondo si salutano e si presentano inevitabilmente. Essere una viaggiatrice tra altri viaggiatori mi fa sentire parte di una nuova famiglia. Siamo tutti simili, abbiamo tutto ciò che ci serve in una borsa e siamo in movimento. Non importa se abbiamo mete diverse, è il viaggio che ci accomuna. Siamo come bambini alla scoperta del mondo, con le stesse difficoltà, lo stesso entusiasmo, le stesse paure e curiosità. Siamo tutti lontani da casa anche se, a pensarci bene, la casa di questa famiglia è tutto il pianeta. Ian ordina qualcosa al banco e mi sorride, gli faccio cenno di accomodarsi al mio tavolo. Quando mi raggiunge mi scappa un sorriso: ha preso un tè, come me, e le sue prime parole sono “Bella tempesta, vero?”

Un tuono fa tremare il tavolo e nelle nostre tazze si formano onde di tè mentre parliamo. Facciamo liste dei luoghi dove siamo stati e, come ragazzini che si scambiano le figurine, è tutto un “Ce l’ho” e “Mi manca”. La mia strada attraverso il Sud America comincia dalla Patagonia, ho pensato di partire dal basso della mappa; Ian invece viene da nord ed è con una punta d’invidia che osservo le sue foto della foresta amazzonica, la più estesa del mondo nonostante si riduca ogni giorno per la sconsiderata avidità dell’uomo. Voglio vederla prima che scompaia come tante altre cose di cui ormai non posso più godere: culture scomparse, ambienti devastati, animali estinti, zone che non è possibile visitare per via di stupide guerre.

Io non vedo l’ora di risalire il Rio delle Amazzoni con i suoi velenosi segreti e le sue piante preistoriche. Proseguirò, poi, verso il Perù e salirò a Machu Picchu ad ascoltare le storie delle sue rovine Inca. Ian mi parla anche delle cascate formate dai grandi fiumi sudamericani, Iguazù tra Brasile e Argentina e il Salto Angel in Venezuela fotografate dall’alto volando in mongolfiera.

Quello che mi affascina soprattutto sono i suoi racconti su come abbia raggiunto i siti meno conosciuti. Come le mie, sono storie di ostacoli e gentilezze, storie di difficoltà superate in modo fantasioso e con un po’ di fortuna, storie di sconosciuti diventati amici, storie di strade sbagliate e smarrite che poi conducono in luoghi splendidamente inaspettati.

I viaggiatori amano raccontare le proprie avventure e amano condividerle con chi può capire cosa si prova. Io scrivo, Ian fotografa e dice: “Mi piace guardare i paesaggi immaginando di essere l’esploratore che li ha visti per la prima volta. Mi piace osservare gli animali liberi nella bellezza dei loro movimenti e stupirmi della fantasia della natura.”

Scopriamo di esserci sfiorati in più di un’occasione, io arrivavo quando lui partiva e viceversa nello stesso periodo in Indonesia. Oh, l’Indonesia…


Diario: Sumatra

Delle diciassettemila isole che compongono questo arcipelago disteso sulla cintura di fuoco, ho scelto Sumatra come prima tappa. Sono arrivata una sera di fine marzo e all’aeroporto di Medan è venuto a prendermi Mbra, proprietario della guest house di Bukit Lawang dove avevo prenotato una stanza. Per raggiungere il villaggio alle porte del parco nazionale Gunung Leuser ci vogliono due ore d’auto su strade terribili e totalmente buie. Le strade indonesiane sono così mal messe che ne ho vista una con un albero che cresceva nel mezzo sollevando l’asfalto. Mai come in questo posto ho visto la natura ribellarsi alla cementificazione e gli abitanti, come Mbra, lottare al suo fianco per salvare la giungla dalla distruzione. È nato e cresciuto nel nord dell’isola, ha vissuto facendo il guardiaparco in questa bellissima foresta che, protetta, sopravvive all’invasione di piantagioni di palma da olio. Ha sposato Andrea, una biologa inglese venuta a studiare gli oranghi e mai più ripartita. Tutti questi racconti mi facevano immaginare quello che mi aspettava a Bukit Lawang, ma intorno a noi era così buio che ancora non potevo scorgere nulla. All’ingresso del villaggio abbiamo lasciato l’auto perché il sentiero è troppo stretto e abbiamo proseguito a piedi alla luce di una torcia. Arrivati alla guest house abbiamo cenato insieme con il suono del fiume in sottofondo. Mbra mi ha raccontato degli oranghi che vivono nel parco. Alcuni sono stati salvati da situazioni disperate di sfruttamento, dagli zoo, dalle case di ricconi che li tenevano al guinzaglio. Qui vengono liberati in natura e lentamente abituati a procurarsi il cibo autonomamente. Ci sono dei punti nel parco dove i ranger portano banane e latte, gli oranghi sanno di poter trovare aiuto in quei punti, ma il bello è non vederli tornare dai ranger per settimane perché imparano a cavarsela da soli. Gli occhi di Mbra brillano di amore per questa giungla e i suoi abitanti. Mi ha parlato della bellezza che avrei trovato in tutta l’Indonesia, una bellezza che fa dimenticare lo sporco che il mondo cosiddetto civilizzato nasconde qui sotto il tappeto: “Gli angoli di Indonesia che sopravvivono a questo disastro sono così spettacolari che quando ti ci trovi ti viene da piangere al pensiero che un giorno non ci saranno più ed è anche colpa tua, per quello che compri, per come vivi. Guardi le gigantesche onde dell’oceano, guardi le imponenti cime dei vulcani e pensi che dovrebbero spazzare via tutto per restituire queste isole ai loro animali, alle loro piante e alle popolazioni indigene che sanno conviverci in armonia.”

Le parole di Mbra mi avevano colpita per la loro passione e non vedevo l’ora che spuntasse l’alba per vedere quello che l’oscurità così profonda di quella notte mi stava nascondendo.

Quando finalmente il sole è sorto sono corsa sul balcone di legno della mia stanza appesa alla collina e mi si è fermato il cuore: un capolavoro di Madre Natura! Davanti a me un’altissima e fittissima distesa di alberi con foglie di ogni forma, grandezza e sfumatura di verde, una giungla viva, agitata dai salti dei macachi tra i rami, dal canto degli uccelli, da un vento fresco. Una natura selvaggia e rigogliosa. Sotto di me il sentiero costeggiava il fiume che passava veloce scomparendo all’orizzonte nella luce dell’alba. Sulla riva c’erano due donne che lavavano i panni battendoli sulle rocce e io mi sentivo di nuovo al posto giusto. Il mio primo sguardo sull’Indonesia non poteva posarsi su uno scenario più bello.

Bukit Lawang è un paesino sperduto ai margini del parco nazionale. Una sola via costeggia il fiume, così stretta che ci si passa solo a piedi. La sera precipita in un buio irreale per noi cittadini abituati al cielo rischiarato dai lampioni e dalle finestre di alti palazzi. A Bukit invece la notte è davvero nera quando non c’è luna. Alla guest house quando fa buio ci si ritrova a chiacchierare, qualcuno suona la chitarra, si mangiano i piatti locali cucinati al momento, si beve e si ascoltano le storie degli ospiti. Capisco perché Andrea non se n’è più andata, capisco la luce nel sorriso di Mbra quando parla della sua giungla. Non ci sono comodità né servizi, non c’è quasi nulla di quello che noi crediamo indispensabile. Perché non serve.

Una mattina, dopo colazione, sono partita con Mbra, il suo assistente Pi e un paio di altri ospiti della guest house per un’escursione di due giorni nel cuore del parco, con un po’ di fortuna avrei incontrato un orango. Orangutan significa persona (orang) della giungla (utan) e noi stavamo andando a fargli visita a casa sua senza disturbare. Nessuno di noi si aspettava un’esperienza come quella che abbiamo vissuto in questi due giorni. È cominciata come una normale escursione, passo medio, occhi spalancati per la stupenda natura intorno a noi. Ad un tratto si sono mosse le cime degli alberi e Pi ha cominciato ad indicare in alto: un orango! È un animale bellissimo con una pelliccia lunga e lucente. È grosso, ma agilissimo e sorprendentemente aggraziato nei movimenti. La cosa più stupefacente è il suo sguardo così espressivo e intelligente, quando lo incroci riesci a percepire che sta pensando e se non ti senti suo pari, ti senti inferiore. Vorrei conoscere la natura come la conoscono gli animali guidati da un istinto praticamente infallibile, fiutare i pericoli, sapere dove andare e come arrivarci, affrontare le stagioni e il tempo che passa, saper stare al mondo.

L’escursione è proseguita tra cascate, ruscelli con tartarughe, pranzo con le mani, sanguisughe e vere e proprie arrampicate. A volte guardavo i miei compagni scalare il sentiero sopra di me e non credevo di riuscire a fare la stessa cosa. Ogni volta che mi aggrappavo ad un albero prendevo quello morto che si sbriciolava e volavo giù di qualche metro. Tutti sono scivolati almeno una volta e Pi ci diceva ogni volta: “Welcome to the jungle!” ridendo di noi. Dovevamo scegliere le liane giuste, cercare un appiglio saldo, ma ogni volta Mbra pareva preferire la via peggiore.

Nelle pause di riposo ci illustrava i segreti della foresta. Ci ha fatto succhiare la parte di un fiore che ha reso dolce il sapore dell’acqua che bevevamo anche a distanza di ore. Ci ha mostrato piante, animali e insetti raccontandoci la storia del parco e piccoli trucchi per sopravviverci. Poi si voltava contro una parete di terra e diceva: “Andiamo!” e noi ci guardavamo pensando “Andiamo dove? È un muro!”, ma dalla terra spuntavano una liana o un ramo e lui saliva tranquillamente verso un nuovo sentiero. Noi ci fidavamo di lui e, tra risate e imprecazioni, l’abbiamo seguito per ben nove ore. Siamo caduti, ci siamo graffiati, abbiamo inciampato nelle radici e abbiamo sbattuto contro rocce coperte di foglie, ma siamo andati sempre avanti.

Io non sono una persona sportiva e non so davvero come abbia fatto, dove abbia trovato tanta energia quel giorno. So solo che dopo un po’ non sentivo più la fatica e non m’importava del sudore negli occhi, del fango dentro i vestiti, delle foglie nei capelli. All’inizio stavamo attenti a dove mettevamo le mani in cerca di appigli per paura di qualche insetto o animale, ma poi è diventata una questione di sopravvivenza e per reggerci infilavamo le mani nel fango fino ai gomiti senza pensarci. L’odore della foresta era rinfrescante e tonificante nonostante l’umidità. Era tutto così bello e verde che perfino la stanchezza era diventata una sensazione piacevole distratti com’eravamo da quella natura splendida. Arrivammo infine al fiume. Sull’altra sponda ci aspettava un fuoco acceso e una tela cerata sotto la quale avremmo dormito. Il pollo cuoceva sulla griglia mentre i ragazzi giocavano a tuffarsi in una pozza profonda dalle alte rocce intorno al fiume mentre io sorseggiavo un delizioso tè bollente e il tramonto arrivò in un attimo. Più tardi, mentre una luna enorme illuminava la foresta e scintillava sull’acqua, Mbra ci tenne svegli a risolvere i giochi di logica che preparava con dei fiammiferi sulle stuoie dove avevamo cenato e intanto si chiacchierava di viaggi e delle nostre vite come vecchi amici. Una giornata così dura unisce molto facilmente. Alla fine, esausti, ci siamo ritirati sotto la tenda e qualcuno si è sdraiato dicendo: “Credo che dormirò come un sasso, anzi credo che potrei dormire su un sasso!”. Invece nessuno ha dormito bene quella notte nonostante la stanchezza, un po’ per il freddo inaspettato, un po’ perché il rumore del fiume ci faceva andare a far pipì ogni due ore al chiaro di luna, un po’ perché nella giungla di notte ogni rumore ti inquieta. La mattina, però, ci siamo svegliati con lo spettacolo della foresta davanti agli occhi e ne valeva la pena. Eravamo tutti rotti e ci siamo guardati i lividi e i graffi del giorno prima, anche un po’ fieri per essere arrivati interi alla fine. Colazione con decine di scimmiette appostate tra gli alberi sopra di noi in attesa degli avanzi e abbiamo impacchettato e caricato tutto sulle camere d’aria legate tra loro. Ci siamo imbarcati pronti ad affrontare le rapide e siamo partiti via fiume verso Bukit.


 

Cile, oggi.

Ian dice che, nonostante la sua costosa attrezzatura da fotografo, non esiste una macchina in grado di fotografare certi momenti. È stato anche lui in Indonesia e l’ha amata come me. Abbiamo ricordato insieme tanti angoli preziosi di quelle isole.

Tuk Tuk, per esempio, un paesino che fa girar la testa quando si pensa a dove si trova: sull’isolotto di Samosir che sta in mezzo al lago Toba che si è formato nel cratere di un vulcano esploso settantamila anni fa nel nord di Sumatra. Abbiamo avuto entrambi la sensazione che fosse un luogo stregato. Forse perché abitato dalla tribù Batak che un tempo si diceva praticasse il cannibalismo, forse perché per tradizione tutti gli abitanti sono abili musicisti e cantanti, forse perché trovarsi a guardare un vulcano gigantesco da un’isola all’interno del cratere è già qualcosa che fa effetto, ma c’era dell’altro. Quando ripenso alle nuvole nere dei temporali che scoppiavano come palloncini sulla punta di quei tetti dipinti e intagliati così bene, la prima parola che mi viene in mente per definire il lago Toba è: stregato. Era come se tutti gli abitanti condividessero un segreto che non era solo la chiave del loro stupefacente talento musicale. Qualcosa di magico e indefinibile si scorgeva appena nello sguardo di ognuno di loro. I Batak sono una comunità unica al mondo e la loro isola è dove tornano la sera con i traghetti dopo essere stati tra i comuni mortali.

“E Bali?” aggiunge Ian come un’altra figurina nel gioco. Sì, poi c’è Bali, ovviamente.

Bali è uno smeraldo. Un’isola verdissima e brillante che profuma di fiori e incensi. Bali è un’isola misteriosa dove si crede ai fantasmi, si fanno offerte agli dei e danze contro gli spiriti malvagi. I balinesi compiono ogni giorno tantissimi piccoli riti e cerimonie del loro particolare induismo. Dispongono offerte di fiori e riso davanti agli ingressi di case e negozi ogni mattina. Fanno meravigliose danze che raccontano leggende oppure servono a scacciare le presenze negative oppure mille altre cose. Ci sono mille Bali diverse sull’isola. C’è quella per i surfisti a sud, c’è quella delle immense terrazze di risaie nel centro, c’è quella dei templi sulle montagne avvolti in nebbie mistiche e fiori giganti, c’è quella delle spiagge coralline e delle scogliere a strapiombo sul mare.

Ian mi chiede se, attraversando l’isola in motorino, mi sia mai trovata sotto uno dei suoi famosi temporali estivi com’è successo a lui. Annuisco e scoppiamo a ridere.

Bali mi ha regalato lo splendore dei temporali estivi. Gocce di pioggia da mezzo litro che esplodono sui tetti e sui rami degli alberi. Imponenti nubi nere come inchiostro distese sopra una striscia luminosa di sole. All’improvviso ogni cosa diveniva luccicante bagnata dalla pioggia fresca. Il fragore dei tuoni e le cascate d’acqua dalle nuvole zittivano tutto e tutti. Nessuno parlava al riparo sotto i portoni e le verande. Stavamo lì, io e le altre persone sorprese dal temporale, in silenzio, a osservare e aspettare. Tutti impotenti a osservare e aspettare. Qualcuno affascinato, qualcuno seccato. Uno scambio di sguardi e sorrisi tra persone inzuppate. Lo sguardo complice di qualcuno che sa come ti senti, lo stesso che aveva Ian immerso nei suoi ricordi come me.

“Bali è straordinaria.” dico semplicemente.

“Già.” conferma Ian, non ci sono abbastanza parole per descriverla, quindi basta il fatto di esserci stati per capire cosa intendo.

Sarei rimasta giorni a Tanah Lot, un complesso di templi nella zona sud est di Bali, a guardare le onde infrangersi sulla costa, sotto e intorno a quelle costruzioni fatte della stessa pietra vulcanica della scogliera. Onde splendide ed enormi, onde calde dell’oceano Indiano dai colori magnifici che hanno modellato nei secoli quella baia e tutta l’isola e tutte le isole.

Sarei rimasta giorni sul vulcano Kelimutu nell’isola di Flores ad ascoltare i consigli dello stregone del villaggio mentre il sole sorge sui tre laghi colorati nei crateri, custodi di anime antiche e spiriti leggendari.

Sarei rimasta giorni a Moni e nei villaggi sparsi sui monti di Flores a salutare i bambini che rincorrevano la mia auto urlando “Hello miss! Hello miss!” e poi volevano farsi fotografare nelle pose dei loro idoli sulle riviste e ridevano guardandosi nel display della macchina fotografica.

Sarei rimasta giorni a nuotare lungo le barriere coralline al largo di Labuan Bajo e della minuscola Gili Meno.

L’Indonesia ha quest’aria sospesa tra magia e realtà che ci rapisce, ci spaventa e ci coccola, ci fa dispetti e regali. L’Indonesia ci sorride e poi ricopre i suoi segreti con un lenzuolo di foglie, coralli e chiari di luna.

Abbiamo finito il tè, ma la tempesta oltre la finestra continua, così Ian ne ordina ancora e il gioco di scambiarsi figurine di viaggio può continuare. Gioco un’altra carta asiatica.

“Cambogia?”

Ian allarga le braccia per sottolineare la sua risposta: “Incantevole!”


 

Diario: Cambogia, il regno delle farfalle

Quando viaggio non porto con me alcun pregiudizio e cerco piccole cose belle anche dove mi dicono che non ce ne sono. La Cambogia mi è piaciuta tantissimo anche se tutti dicevano che sarei andata a passeggiar tra le mine. Da noi sono arrivate l’orrenda storia della dittatura di Pol Pot e le altrettanto orrende cronache sul turismo sessuale. Ai muri degli uffici di frontiera erano appesi manifesti che chiedevano di rispettare i bambini cambogiani perché troppo spesso sono vittime di abusi da parte dei turisti. Cosa pensare di un Paese che ha bisogno di appendere questi manifesti? Nessuno parla mai di quanto sia, invece, meraviglioso, della sua natura spettacolare e della gentilezza dei suoi abitanti che ti girano intorno come farfalle nei loro abiti colorati. Della Cambogia ho un ricordo dolce come il succo di canna da zucchero che compravo per la strada mentre da Siem Reap raggiungevo in bicicletta il sito archeologico di Angkor. Che meraviglia pedalare per le vie di quell’antica città rimasta per secoli nascosta nella giungla, sopraffatta dalle piante e abitata da colonie di piccole scimmie. Che meraviglia trovarsi nei templi maestosi che si vedono nei documentari e sui libri, leggere la loro storia narrata come a fumetti nei bassorilievi, girare in bicicletta all’ombra di alberi giganteschi in una pace piena di farfalle e rovine millenarie, scalare i templi minori e più lontani, incontrare due scimmiette al tramonto lungo il fossato dell’Angkor Wat. Nemmeno le foto rendono l’idea, bisogna andarci e comprare dieci cartoline per un dollaro dai bambini che stanno fuori da ogni tempio, bere un succo di frutta all’ombra e ricominciare ad esplorare il parco, rispondere ai saluti cortesi delle persone che come me viaggiavano in bici invece che in taxi. Mi sono sentita ospite di un regno magico, eppure mi trovavo in un Paese che ha bisogno di appendere manifesti alla frontiera con la scritta “Rispettate i nostri bambini”.


 

Cile, al tavolo della locanda.

Ian gioca la carta dell’Australia dove lo chiamano Kiwi, ma ha scattato delle foto spettacolari laggiù. Quando me le mostra penso che, se non avessi visto con i miei occhi gli stessi luoghi, non crederei a quei colori e a quelle forme. Come nessuno credette all’esploratore che tornò in Europa parlando dell’ornitorinco. Chi poteva credere che esistesse un animale tanto bizzarro? L’Australia, però, è proprio il Paese delle cose strane.


 

Diario: Australia.

Perth è ordinata, pulita, luminosa, piena di verde. Oggi posso dire la più bella città australiana che abbiamo visitato. Le città australiane sono perfettamente organizzate, ma troppo giovani per chi viene dalla vecchia Europa. Di quella poca storia, però, gli australiani hanno un grande rispetto, la preservano, la esaltano, la sfoggiano con orgoglio. La storia di questa isola gigante sta solo in parte nelle targhe commemorative delle battaglie nel Pacifico affisse nei parchi dedicati ai soldati della Seconda Guerra Mondiale, ma è fatta delle storie degli immigrati e deportati di diverse culture.

La bellezza vera dell’Australia, però, si trova nei suoi paesaggi. Appena si esce da Perth di due chilometri, ci si trova davanti un mondo incredibile dove qualcosa di selvaggio riesce a resistere all’invadenza dell’uomo, dove si trovano luoghi e creature straordinari. Dove non c’è campo per i cellulari e se ti si rompe il motore puoi solo pregare che prima o poi passi qualcuno, qualcuno che non sia un serial killer. I territori in cui è la natura a dettare legge sono ancora moltissimi da quelle parti. Le cose sulla costa ovest stanno così: una strada, solitamente una corsia per senso, con intorno cespugli a perdita d’occhio e tanto, tantissimo cielo. Non alberi, non montagne, non case, solo cespugli e il cielo. Questo gigantesco interminabile cielo australiano che fa paura perché non c’è nulla a sorreggerlo tranne questi cespugli. Qui si perde la prospettiva, il senso della misura. Per ore resti ipnotizzato dalla triade strada-cielo-cespugli e all’improvviso sei arrivato. Cittadine, deserti, la costa, l’oceano perfino, appaiono solo all’ultimo momento. Sul serio, le cose appaiono quando ci arrivi, prima non esistono. È pazzesco, vero? Però è anche bellissimo. Il deserto dei Pinnacles, per esempio, è una sorta di foresta pietrificata molto scenografica. È divertente trovare le rocce dalle forme strane e i colori sono stupefacenti. In lontananza si vedono delle altissime dune di sabbia e dietro quelle c’è l’oceano. La parte migliore del viaggio lungo la costa ovest è stata all’interno della riserva di Shark Bay, miglia e miglia di pianeta blu, territorio di creature marine e paesaggi impossibili anche da immaginare. C’è una baia dove si possono ammirare gli Stromatoliti che pare siano gli organismi viventi più antichi del mondo, esistono da tipo tre miliardi e mezzo di anni. Sembrano rocce, ma secondo gli scienziati respirano e con l’alta marea fanno le bolle (roba strana eh?). Si trovano solo in cinque posti nel mondo, quattro sono in Australia e uno alle Bahamas. Poi c’è la splendida Shell Beach, una spiaggia fatta, come dice il nome, completamente di conchiglie, milioni di conchigliette bianche che formano dune e colline fino ad una baia dove il mare è così trasparente che quasi non si vede. Qui mi son goduta uno dei migliori tramonti della mia vita bevendo birra con due ragazze irlandesi incontrate lungo la strada.

Come in ogni riserva naturale la regola è prendi solo foto e lascia solo impronte.

Dopo la costa ovest sono scesa a Kangaroo Island, il luogo migliore per osservare la fauna unica che si trova in Australia. Con altri ragazzi ho girato l’isola su un autobus guidato da Gus che è nato proprio a Kangaroo Island ed è pazzesco visto che gli abitanti totali sono meno di 500 e ho dormito in una fattoria.

Per prima cosa siamo stati in un posto da cartolina, Remarkable Rocks che è un promontorio su cui si trovano queste rocce strane che non c’entrano nulla col resto del territorio. Gus ci ha detto di non credere ai pannelli lungo la strada che spiegavano la formazione di questo particolare sito nelle ere geologiche, perché si sa che, come altre strane cose di pietra nel mondo, sono state portate dagli alieni. Qualunque sia la loro origine, da lassù si gode di un panorama spettacolare che lascerebbe senza fiato anche gli alieni. Ci sono queste onde gigantesche che s’infrangono sul fondo del promontorio e intorno a tutta l’isola e i colori della terra e del mare sono incredibili.

Poi siamo andati ad Admirals Arch dove si possono osservare le foche che giocano, riposano e imparano a nuotare scendendo dal faro fino a questa grotta lungo una passerella di legno.

La sera, dopo cena, Gus ci ha portato lungo la scogliera per vedere i timidissimi pinguini fata. Fanno una vita davvero difficile perché sono piccoli e indifesi quindi dormono solo quattro minuti alla volta e il resto del tempo stanno all’erta. Non si potevano fare foto perché il flash li può accecare o spaventarli al punto di avere un infarto. Gus illuminava la scogliera con un faro rosso che a loro non dava fastidio, ma appena si sentivano osservati cercavano di nascondersi.

La visita migliore, però, è stata a Seal Bay dove si trova una colonia di leoni marini: meravigliosi! Nuotano per cercare cibo per tre giorni senza sosta e quando tornano alla spiaggia sono sfiniti, per questo sonnecchiano al sole. È stupendo vederli nuotare dentro le onde e surfare su quelle più grandi. Un altro luogo dove sarei rimasta per ore, giorni, mesi!

Davanti a qualcosa di troppo bello vorrei soltanto sedermi a guardare, senza pensare, senza parlare, solo godermi lo spettacolo e a Kangaroo Island mi è capitato spesso grazie ai suoi paesaggi violentemente belli, dai colori intensi e dalle forme ruvide. È un grande scoglio piantato in un mare profondamente blu, circondato da spiagge candide, abitato da specie bellissime di animali e uccelli. Pensavo per tutto il tempo che non volevo disturbare quell’armonia perfetta, che non ero niente per la vita dei leoni marini sdraiati al sole, per le foche che insegnavano ai cuccioli come tuffarsi tra le onde, per i koala che dormivano tra i rami per digerire le foglie tossiche di eucalipto, per i giganteschi pellicani, per i minuscoli pinguini fata, per l’echidna che da bambina osservavo incuriosita sull’enciclopedia degli animali insieme a mio fratello. Pensavo alla fortuna di poter assistere a qualche momento delle loro giornate. Chiudo gli occhi e sono ancora sulla scala di legno che porta alla grande spiaggia dei leoni marini, enormi, fieri, selvaggi. Un leone marino chiude gli occhi e ricorda di aver visto, una volta, me sulla sua spiaggia. Poi si tuffa in un’onda di tre metri e nuota per giorni.

Mi dispiace sempre lasciare un luogo splendido anche se sto andando a vederne un altro altrettanto emozionante, mi dispiace sempre lasciare le cose belle, le sensazioni piacevoli, perché ho paura che non tornino più. Di solito, infatti, non tornano, almeno non nello stesso modo, ma credo che anche questo sia parte della loro bellezza. Ogni cosa dura solo un attimo, cerco di ricordarmelo e tenermi dentro gli attimi migliori. Qualcosa ovviamente va perso, ci sono tante piccole cose che non sto scrivendo e forse tra qualche mese non le ricorderò più finché una foto, una canzone o una luce particolare mi faranno tornare in mente un aneddoto perso.

Come quando sono stata nel nord est per vedere la Grande Barriera Corallina. Mi emoziono ancora ripensando al momento in cui mi sono immersa e l’acqua ha spento tutti i rumori intorno a me per portarmi in un mondo nuovo. Montagne di corallo sono apparse dal blu davanti ai miei occhi, con pareti che arrivavano a un metro dalla superficie e poi si gettavano in profondità per decine, centinaia di metri. Canyon, gole ed enormi caverne antichi di migliaia di anni, alberi di corallo grandi come querce. Città sommerse con grattacieli di mille colori, popolate di pesci, piante e creature indaffarate che s’infilavano nel buio e sbucavano da ogni fessura. Quando qualche nuvola copriva il sole, si vedevano le ombre più strane correre lungo le pareti di queste montagne e grattacieli di corallo. Quando tornava la luce tutto si accendeva e brillava come una cascata di lampadine e pietre preziose giganti. Fin dove arrivava la luce, l’acqua era così trasparente che i pesci sembravano volare intorno a me, mentre io volavo sopra e intorno alle loro città. Guardando in basso, dove la luce non riusciva a passare, la fine del mondo, l’oceano profondo e scuro, gli abissi più misteriosi. Banchi di migliaia di pesciolini minuscoli si muovevano velocissimi come sbuffi di esplosioni sottomarine. Non mi stancherò mai di fare i complimenti alla natura per gli spettacoli che mi sta regalando in questi mesi.


Cile,ora.

Il cielo si è aperto, grandi raggi di sole trafiggono le nuvole e fanno scintillare il paesaggio bagnato. La tempesta è passata. È tempo di rimettersi in viaggio.

“Pensi di fermarti da queste parti?” mi domanda Ian leggendo nei miei occhi la voglia di avventura.

Sorrido mentre mi alzo, mi infilo il giubbotto e raccolgo lo zaino rispondendo: “Sono solo di passaggio.”

Ian butta giù il resto del tè in un solo sorso, si getta la borsa su una spalla e con lo stesso sorriso mi segue alla porta dicendo: “Anch’io”.

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