di Patrizia Berardo
La vecchia casa dall’aspetto tra l’agreste e il gentilizio apre al sole mattutino il suo loggiato che guarda verso il rione principale del paese mentre, nella parte retrostante, appare un grande respiro di verde maculato da alberi vetusti e rovi attorcigliati a cui mani umane mai hanno dato armonia e ordine. In fondo, dove le passeggiate oziose giungono raramente, si erge un muretto a secco di grandi pietre graffiate e corrose dal tempo; una piccola cancellata in ferro battuto, ricoperta da un’edera tenace e vetusta, è l’unico varco per il mondo lì dentro contenuto, racchiuso come in uno scrigno.
Un viluppo di rami nella parte più in fondo pare fatto per evocare lontani ricordi mentre, nella piccola radura che più in là si apre, flora e fauna convivono sotto i luminosi raggi solari oppure al diafano, evanescente chiarore lunare. Una fontanella stilla un sottile argentato filo d’acqua, da piccoli vasi riversi fanno capolino lucertole timorose, ci sono fiori che escono dai muri, petali, che si rivelano da fondi azzurri e son cielo e terra mentre, adombrata da fitti cespugli, una consunta panca di pietra invoglia alla distensione per una lettura oppure per un dolce sonnolento oziare.
Ci sono momenti in cui la memoria sembra avere contorni più netti e quando ciò avviene, l’alone dei ricordi si dissolve dando respiro a racconti che la mente assimila come di un tempo vissuto: la luce tra gli alberi, la neve, i vapori autunnali, il rincorrersi delle nuvole in un cielo notturno, la stupita annunciazione dell’alba, le distese dei fiori che infiocchettano il prato come una piazza in un giorno di mercato; la magia del sogno in questo giardino intimo e nascosto è così palpabile da diventare realtà.
Seduta sulla panchina appena baciata dai primi raggi del sole, l’aria del mattino è dolce e attenta, ascolto ogni flebile sussulto, ogni fruscio. Gli occhi si posano sullo zampillo d’acqua della fontanella che luccica e ricade formando piccoli cerchi concentrici, dove mille infinitesimali bollicine danzano, saltellano.
Questo è il momento più magico del giardino: “Mi è parso di udire un bisbiglio ma forse mi sbaglio”… a volte i ricordi di altri, anche se appesi ad un filo sottile, nel loro eterno vagare possono sfiorarti per diventare i tuoi e creare il tuo sogno. Silenziosamente, una carezza mattutina scivola sul mio viso e, tra le essenze delle erbe officinali, la ragione lascia il posto alle immagini sussurrate dai ricordi d’altri, che si sfogliano lentamente come pagine ingiallite di un antico diario di viaggio, sempre più chiare, sempre più vicine.
E’ un imprecisato giorno feriale ed ho deciso di compiere il viaggio in battello per gustarmi a pieno quanto questo pezzo di cielo e terra potranno donarmi.
Una piccola folla saluta la partenza notturna della motonave. Il porto si allontana fino a svanire pian piano dietro la selva d’alberi marini.
Sul fiume la nave dondola, pare arrestarsi per prendere nuovo respiro e riacquistare il dominio delle acque, con velocità inizia la sua corsa tortuosa verso Nord. Percorrerà il fiume Paranà fino ad imboccare il Rio Iguazù, dove le frontiere di tre paesi del Sud America si incrociano: il Brasile, l’Argentina e il Paraguay.
Sulle rive è ancora possibile scorgere decine di alligatori che sostano immobili crogiolandosi agli ultimi raggi del sole calante, mentre i margini del fiume vanno a poco a poco elevandosi finché le sue acque corrono incassate tra due ripidi pendii. L’odore salmastro mi riempie le narici e continuo ad osservare la vita che va ritirandosi scendendo ora la notte. Il rullio della nave diminuisce ed è possibile udire lo sciabordio delle acque che, mosse dal moto dell’imbarcazione, sbattono a riva schiumando, intorpidendosi tra le sabbie e le aggrovigliate radici degli alberi. Il cielo, ora di un blu intenso, si accende e riflette sul liquido nastro le sue stelle, i suoi infiniti misteri notturni.
La densa nebbia del mattino arresta per alcune ore il correre della motonave, poi il ritmico rollio riprende quasi sonnolento. La notte non mi ha portato riposo per la troppa eccitazione che questo viaggio mi arreca: un sogno con pennellate evanescenti, un’incognita indistinta diventata una vibrante realtà.
In lontananza, tra il luccicare delle acque, si scorge il nostro approdo di Puerto Aguirre, ultimo porto argentino; qualcuno da bordo ci incita a scendere in quanto la corsa è finita.
Vengo colta da un senso di smarrimento, ma indietro non si torna. Scesa a terra, poco lontano sulla banchina trovo subito la guida che mi sta aspettando per condurmi in macchina all’albergo distante circa una ventina di chilometri. Arrivati, un sordo rumore di acque che si infrangono mi riempie le orecchie e scorgo in lontananza una nube biancastra salire da terra mischiandosi all’azzurro stinto del cielo: sono i segnali che le Cascate Iguazù si trovano poco distanti.
Ora l’impazienza è grande, troppo tempo ho aspettato il momento. Lascio le valigie intatte nella piccola stanza d’albergo e raggiungo con la guida le vicine cascate. Mi sovviene alla mente quanto la leggenda narra:
“Naipi era una giovane di una bellezza straordinaria e il dio Serpente, padrone del mondo, la voleva per sé, al suo eterno servizio. Nel villaggio immerso nella lussureggiante foresta, viveva un giovane guerriero di cui lei si era innamorata e ne era corrisposta. Volevano una vita tutta loro e, per sfuggire al potere del dio Serpente i due giovani decisero di fuggire lungo il fiume nel vano tentativo di disperdere le loro tracce. Ma nessuno era mai sfuggito; la loro fuga fu breve e il dio Serpente si vendicò crudelmente. Con tutto il furore di un dio, creò un’enorme spaccatura nella roccia entro la quale fece precipitare il fiume e con esso i due giovani. Ma la compassione fece breccia nel cuore del dio crudele e per non dimenticare i due sventurati giovani trasformò Naipi in una roccia ai piedi della cascata e il giovane guerriero in una palma ai bordi dell’abisso. Una di fronte all’altro che si guardano immobili per l’eternità”.
Il mio cuore ha un tuffo quando un vertiginoso turbinio di nebbia, di spruzzi, un rombo cupo e incessante si impadroniscono dell’aria e di fronte a me si materializza in tutta la sua potenza l’enorme liquida bolgia de ” La Garganta del Diablo”: quattordici salti d’acqua ne fanno un inferno di vapore, intorno l’elemento liquido tuona con forza e il pulviscolo umido cade come pioggia fine e compatta. Qui passa il confine tra l’Argentina e il Brasile: questa è la più spettacolare delle Cascate Iguazù.
La guida mi esorta a camminare con cautela; un passo falso potrebbe essere fatale. Avanzo con grande tensione trattenendo il fiato poi, raggiunto un punto stabile, alzo lo sguardo e resto sbalordita: una visione imponente, grandiosa e terribile di questo turbine liquido, tuonante, che sprofonda in un baratro tumultuoso di cui non si riesce a scorgere il fondo.
I salti delle cascate sono un continuo divenire di stupore e meraviglia. Le voglio fissare nella memoria e ne scorro con gli occhi ogni lato: c’è un salto che si incunea tra le rocce alla cui base le acque nel greto del fiume fuggono velocissime in uno spumeggiare senza tregua, dove il vento umido non giunge ed il caldo è opprimente. L’acqua profonda a tratti si intorpidisce e pare quasi nera: la lussureggiante vegetazione non si specchia e tutto diviene cupo, piatto, misterioso.
Tra le rocce e l’acqua, protette dall’invalicabile muraglia liquida, vivono stormi di rondini. E’ sorprendente vederle volteggiare, tuffarsi, scivolare e scomparire sulle frange estreme di queste cortine d’acqua. Vivono sulle pietre rocciose e di quando in quando tutte insieme si lanciano verso il cielo per rituffarsi nel pulviscolo acquoso e scomparire, ritornando alle loro dimore solo al tramonto.
La natura è artefice di infiniti quadri che continuamente si rinnovano col variare dell’ora, delle stagioni. Conosce le eleganze, i segreti delle linee, la magia dei colori e commuove l’anima ricordando all’uomo i suoi limiti e le sue debolezze fisiche.
Giunge la sera con il suo fresco e una grande calma accompagna il riposo del creato sotto questo cielo. La vicina foresta pare addormentata, ma non l’acqua che da lontano brontola nella sua continua, inarrestabile caduta.
La visione delle Cascate mi riporta alla mente scenari danteschi: una gola profonda e ribollente d’acqua, dove il sole non giunge mai a squarciare la nebbia. Il panorama non è uniforme ma composto da decine e decine di diverse roboanti balze. Qui la natura ha voluto sbizzarrirsi senza sosta per mostrare tutta le sua capacità e forza creativa. Il cammino è una continua scoperta, un’infinita sorpresa, meraviglia. La potenza, la forza sono inarrestabili e indomabili come il magico apparire di delicati veli d’acqua in evanescenti trame arabesche, che svaniscono in breve per riformarsi in altri preziosi intagli.
Poi al mattino l’immensa nuvola di pulviscolo d’acqua si tinge di rosa vivo, primo segno del sole che nasce dietro la costa brasiliana, mentre la valle dell’Iguazù è ancora immersa nell’oscurità.
Non è facile dare un’idea del meraviglioso scenario, in cui il verde lussureggiante della foresta si alterna con le candide visioni delle Cascate Iguazù, che danno vita ad un salto talmente potente e assordante da creare e lanciare da un capo all’altro un grande arcobaleno perpetuo, che si staglia sul cupo sfondo delle rocce millenarie e sul quale scivolano miliardi di piccole goccioline d’acqua.
Sono trascorsi solo alcuni giorni dal mio arrivo. Tutto così immenso, imperscrutabile che le immagini trovano difficoltà a fissarsi in modo permanente e chiaro nella mente: è una meravigliosa e ineguagliabile scenografia della natura. Qui i tramonti hanno colori inverosimili come il bel grigio azzurro dei colombi selvatici o il lussureggiante piumaggio dei pappagalli “Arara” che abbagliano come fiamme alate o le delicate e variopinte farfalle.
Ora dondolo sul ponte della motonave che lentamente scivola sul fiume immenso: da incassato e stretto tra alti margini, pian piano si dilata. Tutto attorno è un mare di verde dalle mille sfumature, è l’Inferno Verde, la foresta vergine solo qua e là interrotta da chiazze di bambù gigante. La navigazione è tranquilla e segue una andatura a zig-zag per evitare i bassi e insidiosi fondali sabbiosi: questo mi permette di scrutare tra le folta vegetazione nella speranza di vedere i veri abitanti di questi luoghi. Ad un tratto noto un movimento nell’acqua: una scia che velocemente si dirige verso la sponda. E’ un capibara o porcello d’acqua, un grosso roditore che emerge dall’acqua dopo aver cercato il cibo e si tuffa tra la folta vegetazione mentre più in là grosse anitre schiamazzano alzando schizzi e fuggendo quasi disperate. Un paio di grossi gallinacei guardano infastiditi i salti di alcune scimmie dai rami più alti degli alberi.
Il sordo tonfo del grosso libro caduto tra le foglie secche che il vento ha radunato attorno dalla panca mi riporta all’ora mattutina nel giardino nascosto e interrompe il mio sogno. Non saprò mai quali altre immagini questi ricordi di altri mi avrebbero mostrato.
Il lungo filo, ora sottile come una bava di ragnatela, ondeggia e indietreggia mosso da un vento che io non sento e che lentamente lo fa svanire. Da lontano arrivano a tratti i tocchi dell’orologio del vecchio campanile e, tra le verdi foglie del grande cespuglio di forsizia, dondolante su uno scuro ramo mi scruta un piccolo passero; poi, un frullar d’ali veloce, il cespuglio freme e tutto torna silenzioso. Raccolgo il vecchio libro e noto alcune pagine piegate come a voler essere lette per rifiorire a nuova vita. Mi stendo sulla panca in questa ora di luce velata e allungo il braccio per afferrare un filo che la mia mente materializza poco distante: con gli occhi del sogno leggo le pagine piegate ed ecco che i ricordi degli altri mi inducono a una sonnolenta rilassatezza. Le palpebre si chiudono sull’acqua trasparente che si increspa nel piccolo bacile della fontana.
“Nuota, piccola mia” esclama la madre alla bambina di soli tre anni “diventerai una grande pescatrice di perle”.
Le palme e i pini marittimi tingono di verde le sponde delle baie, dove cielo e mare si confondono nell’azzurro nei cui fondali poco profondi nasce l’ostrica perlifera.
E’ mattino presto. Alla baia è già un brulicare di giovani ragazze tutte vestite di bianco, con un mastello trattenuto alla vita da una corda e si apprestano a tuffarsi in mare per poi tornare a galla, svuotare il contenuto raccolto e ributtarsi tante e tante altre volte fino a sera. Le fanciulle sono native dell’incantevole baia di Gokasho, tra Tokyo e Osaka e sono le giovani raccoglitrici di ostriche perlifere.
Una vita difficile trascorsa in uno scenario di grande bellezza: tuffatrici provette, sprezzanti del pericolo pur di raccogliere e portare a riva le larve di ostriche perlifere, nelle quali verrà prodotta artificialmente quella meravigliosa gemma che è la perla.
Si intrecciano fino dall’antichità graziose e delicate leggende. Si pensava allora, in Oriente, osservando la lucentezza della superficie esterna della perla, che la loro formazione fosse dovuta alla caduta di una goccia di rugiada dalla Luna: scendendo, scivolò lungo le valve semiaperte dell’ostrica, penetrò al suo interno fecondandola e fu così che essa generò la perla. Gemme affascinanti che però devono essere portate affinché abbiano a mantenere la loro lucentezza e non abbiano a morire. “Le perle, con il passare del tempo, perdono la loro lucentezza, ma possono durare per tante generazioni: è sufficiente accarezzarle delicatamente, strofinarle sarebbe inutile perché la lucentezza proviene dal loro cuore!.” Così diceva Kokichi Mikimoto, fondatore della più grande e prestigiosa Maison di produzione di perle artificiali: lui impiegò dieci anni selezionando ventisette esemplari unici per forma e colore, componendo la più bella collana di perle esistente al mondo.
Le acque di un profondo blu si mescolano alla fine sabbia della spiaggia. Nel paese del Sol Levante il tramonto non è altro che una sottile bava rossastra ed il buio ricopre ogni cosa. Si accendono, ad una ad una, piccole fiaccole come tante tenui, tremanti stelle. Una scia irreale corre dentro all’acqua che si increspa quando decine di silenziose figure, tutte vestite di bianco, vi si immergono. Sono le “sirene” di Shirahama che, ogni anno, rinnovano la magia del Festival in onore delle fanciulle del mare: Le “Ama ” come venivano chiamate.
Oggi le perle vengono coltivate e le “Ama” non si tuffano più ma, sulle bianche sabbie di questa incantevole località termale, tanto amata degli imperatori giapponesi, il rito si ripete e le donne nuotano nel mare pregando per la sicurezza dei pescatori e per un buon pescato.
Il treno corre veloce lasciando la caotica città di Tokyo alle spalle. Il breve viaggio mi porta nei luoghi dove si torna indietro nel tempo e predomina il senso della natura insito nel popolo giapponese.
Per trovare questa pace ed armonia bisogna andare nei boschi giganteschi che circondano i santuari, nei giardini e nelle campagne.
Un proverbio giapponese consiglia di seguire le vie della bellezza, così ho deciso di salire a Nikko, dove il patto d’amore tra uomo e natura ha creato un piccolo paradiso a memoria eterna del sonno dei due primi Tokugawa.
Entro in punta di piedi nel mondo interiore giapponese, dove la rara fusione di bellezza dei templi e degli alberi mi fa chiedere quali siano fatti per questi o viceversa. Piante, pietre, ciottoli sferici, templi policromi e laccati, formano un’orchestra d’armonia dove linee, giochi di prospettiva, toni di colori, compongono un quadro di rara bellezza e sublime serenità.
Di fronte a me un viale lungo, stretto, sinuoso, fiancheggiato da conifere sempreverdi mi induce a procedere fino al mausoleo di Ieyasu Tokugawa che custodisce la scultura delle Tre scimmie della saggezza: “non odo ciò che non si deve udire, non dico ciò che non si deve dire, non vedo ciò che non si deve vedere”.
Fuori piccole botteghe vendono oggetti sacri, anticaglie, ricordi di ogni specie ma, in fondo alla strada, ritorna la quiete e appare il Ponte Sacro: linea di congiunzione tra la massa verde cupo delle conifere e l’altra sponda rosseggiante di aceri per l’autunno che incede.
Il ponte è una stupenda vibrante pennellata di colore che pone un punto di prospettiva centrale tra tutta quella natura. L’occhio va oltre per scoprire altre fila di conifere e aceri che si inerpicano su per la collina disseminata di templi, di lanterne di pietra, di antichi archi di bronzo e di ripide scalinate. Odo il suono delle acque correnti che tutto intorno spumano in piccole cascate o languono in azzurri laghetti, o traboccano dalle incurvature naturali della collina.
Vedo il gioiello più celebre di Nikko: il tempio di Yakushi dedicato a Ieyasu dove lacche rosse, bianche, oro, gialle, verdi e le molte sculture esprimono lo sfarzo intelligente degli artisti giapponesi. Soffitti tempestati di decorazioni e, alle pareti, grandi quadri di uccelli fantastici racchiusi entro le loro lunghe piume cadenti.
Fu duro, freddo, audace e diffidente Ieyasu che dominò il Giappone costringendo l’erede al trono ad una forzata segregazione nel palazzo di Kyoto ma, se non ci fosse stato, queste bellezze architettoniche, questa immenso mare di verde ordinato, questa simbiosi tra natura e uomo non l’avrei mai vista.
L’Oriental Express, lascia di buon’ora la caotica città di Bangkok e corre verso la penisola di Malacca per un tuffo nel cuore della natura più verde, più primitiva, tra piante e fiori di unica bellezza e rarità.
Dal finestrino del treno entra un’aria calda ma non fastidiosa, così mi affaccio per avere una migliore visione del paesaggio che velocemente scorre.
La ferrovia fiancheggia una nera strada d’asfalto e, il fiume a fianco, dalle acque lente e verdastre, in alcuni punti si allarga per formare una palude ingombra di giuncaie, di alberi cresciuti alle sue rive e allacciati da liane. All’interno è un susseguirsi di vaste zone a piantagione con andamento leggermente ondulato e la vista si fissa e si incanta sulla ritmica successone di queste colture ordinate, verdeggianti. I piantatori lavorano duramente per quest’ordine quasi maniacale: hanno ricacciato indietro di chilometri la giungla, ma la foresta primaria riappare a tratti sulla strada a rivendicare la padronanza di queste terre concedendo al lavoro dell’uomo tregue momentanee.
I padroni di casa mi accolgono cordialmente come è nella loro natura da queste parti e mi fanno sentire a mio agio. L’immersione nel folto verde della giungla può iniziare.
L’umidità è la prima sensazione che pervade la mia pelle e che mi accompagnerà per tutto il tempo. Mi addentro nell’intricato regno vegetale e d’improvviso un groviglio di liane mi sferza il viso. Il sentiero è sbarrato dai tronchi di alberi secolari che svettano verso il cielo e pare non finiscano mai: un lunghissimo verde ponte dalla terra alle nuvole più alte. L’esuberante vegetazione induce a procedere lentamente: qui sotto è una lotta senza soluzione tra gli animali e le piante, che si contendono l’aria, il sole.
In questo habitat la morte e la vita si alternano giornalmente e le giovani piante vinte, sono condannate a una lenta soffocazione nell’ombra mortifera di qualche albero antico e gigantesco, o nell’abbraccio fatale di erbe infestanti.
Il terreno è il dominio incontrastato di radici anche grosse come tronchi, avvolte da fitte edere, così il cammino è sempre ingombro di ostacoli più o meno nascosti. I rampicanti, la cui forza vitale è indiscussa, nella loro perenne ricerca di luce giungono alla sommità degli alberi, si intrecciano ai rami in viluppi inestricabili, si lanciano per l’aria agganciandosi a quelli vicini e così più volte, creando un fitto labirinto di funi attorcigliate, sospese sulla grande volta della foresta. Tutto attorno è un’arruffata densità vegetativa, una disperata lotta per arrivare alla sommità e abbeverarsi di luce e d’aria. Tra tanto verde appaiono punti di colore: sono le orchidee che si abbarbicano ai tronchi dei giganti della selva, salgono sempre più in alto ricoprendoli di fiori azzurri, gialli, rossi, bianchi come collane, a impreziosire questo mondo titanico.
Il cielo si rabbuia e un fronte di nubi scure, gonfie di pioggia, avanza velocemente. Il vento si fa sempre più violento: soffia paurosamente e scompiglia, scoperchia ogni cosa che non sia ben piantata nel terreno. La palma di fonte a casa si eleva per venticinque metri verso il cielo e pare toccare le prime nubi, dalle quali cominciano a cadere grosse gocce di pioggia. Il ricco piumaggio che ne adorna la vetta ora è sbattuto violentemente dal vento; il tronco sottile, esile quasi a dar l’impressione di spaccarsi, si piega, ondeggia paurosamente alla violenza dell’uragano. “E’ come una saetta scoccata verso il cielo ma non si spezzerà è più forte: vedi non fa resistenza ma cavalca il vento, lo asseconda quasi lo accarezza graziosamente” Ora tutto intorno è un vomitare d’acqua e la foresta urla: i suoi abitanti siano essi tigri, leopardi, serpenti, roditori, uccelli, insetti hanno cercato riparo per non essere spazzati via dal vento impetuoso. Si sono schiuse le cateratte celesti e un’enorme massa d’acqua scende a bagnare queste terre. L’acqua scivola via con impeto, si formano torrentelli limacciosi, i fiumi tracimano, la palude si riempie, i campi coltivati diventano impraticabili al piede umano.
Ora il giardino è inondato di sole, la quiete è silenziosa e greve, un volo di sogni: qua e là vampe di calore poi azzurri riflessi di mare, immenso. Folte ombre plumbee all’orizzonte e un fascio di luce che investe ad un tratto: verdi pendii scivolano nelle onde che si frangono contro le rocce.
Il maori Toi aveva armato la sua piroga e, con altri giovani, era salpato alla ricerca di suo nipote Watonga disperso nell’Oceano Pacifico. Toi navigò per giorni e giorni approdando a Samoa, toccando tante altre piccole isole fino a giungere alle coste di un’isola che non aveva mai visto prima. Da lontano gli venne incontro la diafana visione di un’alta catena montuosa candida di neve come una lunga nuvola bianca ” Aotea-roa” esclamò il maori indicando di approdare alla prima insenatura. Senza saperlo era giunto in Nuova Zelanda che ancora oggi i maori chiamano Aotea-roa.
Era ancora un po’ assonnato quando scese dal treno e si avviò verso l’ufficio dei bagagli. La banchina asfaltata gli pareva ondeggiare sotto i piedi e la gelida bruma mattutina riempiva la navata della stazione mentre il freddo mordente gli intorpidiva le guance. Aveva festeggiato con gli amici così, il troppo bere e il poco riposo ora gli creavano alcuni disagi fisici e brividi lungo tutto il corpo. Era giunto a Wellington e la città appariva ancora illuminata, nel suo anfiteatro di colli a specchio della magnifica baia e di pittoreschi porti. Gli edifici coloniali le conferivano un aspetto tipicamente inglese mentre il movimento frettoloso della gente e il traffico sostenuto ne evidenziavano la caratteristica di uno dei maggiori empori commerciali. “Quasi arrivati” disse il taxista, indicando la banchina, dove all’attracco si cullava dolcemente un vaporetto che attendeva l’imbarco dei turisti per la circumnavigazione dell’isola e la visita alle maggiori città. L’imbarcazione sciolse gli ormeggi e ora correva liscia senza affrettarsi, increspando l’acqua qua e là in piccoli gorgogli. Da lontano si vedeva ancora il porto dove, al centro, stavano i vapori delle grandi linee intercontinentali mentre ai lati bighellonava qualche chiatta. Il lontano stridio di un argano arrivò sulla cresta di una piccola onda poi tutto fu silenzio, fuorché lo sciabordare dell’acqua contro i fianchi del battello. In piedi sul ponte, cullato dal dolce movimento della nave, i suoi occhi si sentivano magicamente attratti dalla vastità di quel mare profondo e dal verde intenso della foresta che copriva i dirupi.
Rilesse il programma che continuava a girare e rigirare tra le mani fino ad accartocciarlo. La tranquillità del viaggio venne interrotta da lunghe onde rincorrentesi che, senza sosta, iniziarono a sbattere contro lo scafo dell’imbarcazione, sconvolgendo, in un ribollire disordinato e convulso, il suo quieto ondeggiare. Lo stomaco gli balzò in gola e pensò di ritirarsi in cabina per evitare di essere sballottato come un turacciolo di gomma. Udiva rullii, beccheggi, cigolii, schianti, passi veloci nel corridoio poi, silenzio, tranquillità: il pavimento era tornato in perfetto stato orizzontale, la quiete si era impadronita nuovamente delle acque e I’imbarcazione ora scivolava nello stretto di Cook per approdare al porto di Picton nel nord della South Island.
Dal ponte del piroscafo poteva trarre una visione più integrale del panorama che svelava quadri sempre diversi. La costa si srotolava senza interruzioni: baie sinuose ove pareti rocciose s’ergevano dritte dalle sabbie argentate delle spiagge, orridi pittoreschi, alture superbe e il meravigliarsi era divenuto uno stato mentale sempre vigile, presente ad ogni sguardo. Portò il binocolo agli occhi e vide poco lontano da riva una delle tante colonie di foche, alcuni pinguini e leoni marini che, sbadigliando, oziavano su rocce affioranti. Gli albatros volteggiando seguivano la scia del battello nella speranza di trovare del pesce tra tutto quello schiumare.
Il sole calò dentro la linea orami cupa dell’orizzonte acquoso, lasciando il posto alle tenebre che ora si accendevano di mille luci delle strade, dei palazzi antichi e moderni, dei parchi, dei lampioni fiancheggianti corsi d’acqua navigabili, dei musei della città di Christchurch.
Cominciava a piovere e dal ponte la costa appariva avvolta da una impalpabile cortina biancastra che ne occultava la vista. Il temporale infuriava con violenza e le esplosioni di tuono urtavano le rocce che le riconsegnavano al mare con un sordo lungo brontolio. Nell’alternarsi dei giorni dall’acqua alla terraferma l’imbarcazione sostò alla cittadina di Dunedine per poi doppiare la Steward Island. La ” terra del cielo incandescente” o Rakiura, come veniva chiamata in lingua maori, gli regalò uno splendido tramonto e il fascino dell’aurora boreale, nonché numerose colonie di pinguini.
Il battello virò a destra, doppiando la punta più a Sud dell’isola ma un’ onda violenta schiaffeggiò lo scafo facendogli perdere l’equilibrio, lanciandolo contro alcune panche: “Incerti del mestiere” digrignò tra i denti assicurandosi che la macchina fotografica ed il binocolo non ne avessero avuto a soffrire. Presto avvistò le coste frastagliate di innumerevoli fiordi a strapiombo sul mare del Fiorland e, sul finire della breve giornata di luce, il panorama era freddo di colore in quella severa e selvaggia bellezza. Dal ponte del piroscafo si volse ad ammirare lo spettacolo superbo della natura, poi i giorni si alternarono in un susseguirsi di vedute maestose, incantevoli fino a toccare la città di Nelson, dal dolce clima, dagli splendidi paesaggi, dalle mille casette recinte d’alberi e di fiori, dai colossali eucalipti dove il suo bianco faro si stagliava sulla Tasman Bay.
La piena freschezza del mattino scivolò su di lui: il cielo era limpido, l’aria rarefatta e radiosa, il sole adornava il mare di squame abbaglianti. Al di là dello specchio d’acqua orlato d’un delicato ricamo di schiuma, la città di Auckland appariva estesa su una serie di colline soleggiate e ridenti. Era una visione che esprimeva calore e ricchezza: chiazze di verde, di rosso e di bianco crudo dei palazzi. Ferme nella baia decine di imbarcazioni con le vele leggermente ondeggianti sembravano tante bianche farfalle posate sull’azzurro dell’acqua mentre su tutto svettava la Sky Tower.
Ripose la macchina fotografica, il binocolo, chiuse il computer nella sacca e malinconicamente scivolò via, verso l’aeroporto dove l’attendeva il volo che l’avrebbe riportato alle sue terre, alla sua casa lasciando tra queste lande un pezzo del suo cuore.
Il filo scivola tra le mie dita, lungo, quasi infinito e la muta contemplazione della vita scorre e si rigenera. La bellezza è ancora lì con il colore della nostalgia; una nota turchina, un blu profondo, lontanissimo ma fragrante allo sguardo come seta.
L’amico sostò sul ciglio, guardò in basso l’oceano quieto, appena increspato da quel brivido che Omero chiama “l’innumerevole sorriso del mare”, guardò la piccola vela lontana.
Nella sua mente passò la visione del paese aspro in cui ora viveva, il ricordo delle furiose bufere, dei venti glaciali urlanti tra le foreste, delle montagne cupe e perennemente ammantate di neve. La costa si estendeva come una muraglia lungo il mare e lungo la strada che seguiva la cresta, era tutta una festa nella gaia policromia dei prati e dei fiori che ora la ricopriva. L’azzurro cupo dell’oceano, che sembrava adagiarsi torpidamente nella baia in fondo, era appena rotto da una piccola vela. Verso il sole calante, i colli coperti da fitta vegetazione dalla quale spiccavano i pochi supersiti di una ben più fitta foresta di colossali kauri, si incupivano e i richiami degli animali si affievolivano lentamente.
Il cielo era di una serenità incontaminata, la strada si snodava dinanzi e lui voleva fissare sul suo taccuino ogni momento di questo vagare senza una meta ben precisa. Aveva un interesse e amore particolare per la natura, per i luoghi poco solcati, dando preferenza a tutto ciò che lo avrebbe ricondotto allo stato primigenio di questa terra.
Poche pianure, abbondanza di montagne, colline di amenissimi laghi e la foresta neo-zelndese che non perdeva mai le foglie, mostrando tutte le gradazioni di verde, con la maggior parte delle piante indigene, non comuni ad alcun altro paese. Sapeva l’esistenza di alcuni piccoli boschetti superstiti di kauri scampati alla deforestazione perpetrata anni prima per creare l’ambiente adatto all’allevamento e al pascolo delle pecore.
Un pappagallo verde scuro pareva averlo preso di mira e cominciò a volteggiare attorno al suo zaino. Il kea, animale nativo di questi luoghi, intelligente e scherzoso con il forte becco, cercò di strappare parte dello zaino mostrando il chiaro intento di mangiarselo. Continuando a salire notò colossali eucalipti mentre, più defilati in fondo un filare di giganteschi pioppi ed alcune bellissime querce.
La salita si fece sempre più faticosa fino a giungere all’ultimo balzo, quando i suoi occhi vennero colpiti da un candore prepotente tanto da doverli socchiudere e si fermò. Davanti a lui in tutta la sua maestà era il monte più altro, il Monte Cook o Aoraky, con i suoi sempre eterni ghiacciai che brillavano nella luce rasente.
A bordo della piccola barca si infilò nell’apertura della galleria naturale; la luce cominciò ad affievolirsi ed in breve si ritrovò nell’oscurità. Le grotte di Waitomo erano completamente prive di formazioni stalattitiche ma, dopo una brusca svolta, si parò davanti ai suoi occhi uno spettacolo d’indicibile, irreale bellezza: era entrato nella Glow Worm. A tre o quattro metri sopra il suo capo la volta era tutta punteggiata da una quantità enorme di insetti che spandevano una pallida luce azzurrognola che si rifrangeva in miriadi di punti luminosi nell’acqua scura. Gli parve si fosse d’improvviso aperto un mondo sconosciuto e d’essere entrato nel regno delle fiabe. Migliaia di sottilissimi, luminescenti e appiccicosi fili pendevano dal soffitto come un drappeggio: trappole mortali per farfalle e moscerini che diventavano presto cibo per i piccoli insetti luminosi.
Tra le elevate ripide pareti a strapiombo sul mare le acque vi sbattevano contro violentemente. La costa, coperta da fitti boschi era frastagliatissima, disabitata e mostrava tutta la sua austera primitiva bellezza. A Milford Sound, il fiordo era di un fascino unico con panorami mai eguali, mentre le acque cangiavano con un pallido verde smeraldo e le alte barriere dei monti vi proiettavano la loro cupa massa ombrosa. Il sentiero saliva dolcemente scintillante come un ruscello. Ai lati era un susseguirsi di maestose e incantevoli visioni: picchi nevosi, rocce a strapiombo di centinaia e centinaia di metri, cascate vertiginose che precipitavano a valle tra un’immensa nuvola di spuma, densi boschi di imponenti alberi indigeni che, nell’incedere dell’autunno, donavano una dolcezza impensabile ad un paesaggio così maestoso e severo. Freddi, vasti laghi, alimentati da fiumi che scendevano dalle Alpi Meridionali dove, nelle loro fredde acque, abbondavano le trote e sulle loro sponde nidificavano innumerevoli anitre selvatiche. A occidente aveva la visione della catena alpina quale sfondo coreografico ai grandi laghi freddi mentre, a oriente, l’occhio si perdeva nella ricca pianura d’Otago.
Il buio della notte strisciò lentamente lontano all’avanzare del mattino.
Batuffoli di fumo salivano dal terreno aggrovigliandosi tra di loro e occultando la visione integrale del panorama, svelando solo quadri parziali, mentre soffi e rigurgiti strapazzavano l’aria frustandola con i cupi rimbombi. La scorza terrestre cedeva qua e là alla pressione interna e getti di vapore e di acqua bollente scaturivano da fenditure o voragini. I geyser sprigionavano a grandi altezze e a intervalli regolari, fumanti colonne liquide oppure vari pennacchi o ventagli. Nelle zone di Rotorua e Waurakei, sotto la terra covava il fuoco e ovunque scaturiva fango, acqua bollente da piccole o grandi polle e manifestazioni solforose davano l’impressione di una bolgia dantesca. Tutta l’aria era resa acre dai vapori di zolfo che fluttuavano tra le basse colline ed era ricchissima di minerali che coloravano il terreno in modo surreale: pozze di fango ribollenti rosse, verdi, azzurre.
Stava mollemente appoggiato al finestrino del treno in attesa della partenza quando, dal marciapiede, passarono correndo alcune persone di una piccola comitiva. Ostentatamente guardò altrove ma poi la porta dello scomparto dove si trovava sbatté violentemente, urtata da enormi zaini e valige che occlusero lo stretto passaggio e così egli fu quasi costretto a guardare i nuovi venuti. Una ragazza attrasse particolarmente la sua attenzione: era statutariamente bella avvolta in pantaloni di jeans e giubbotto, di carnagione ambrata, con occhi vivissimi che incrociarono il suo sguardo; lei gli sorrise, mostrando denti bianchissimi. Fu una simpatia immediata e reciproca così, dopo una concitata attività di sistemazione dei bagagli, si ritrovarono l’uno di fronte all’altra. Ne nacque una piacevole conversazione alla quale parteciparono anche gli altri compagni del gruppo. Parlarono dei rispettivi viaggi, delle emozioni, delle impressioni e la ragazza lo invitò dai suoi parenti maori per una festa tra canti, tradizioni e leggende.
Con una macchina, che li aspettava parcheggiata a fianco di un malandato steccato, percorsero una lunga strada per poi immettersi nella suggestiva Whanganui River Road che, vecchia e tortuosa, seguiva le lente anse del fiume Wanganui, aprendosi su fantastici panorami e attraversando alcuni villaggi maori; uno di questi era la meta.
“Purutia, purutia!” (Ferma qui, ferma qui!) gridò lei all’amico che guidava: uno stridio metallico azionò i freni della macchina che si fermò a fianco di una piccola casetta. Erano giunti e dopo i saluti, si infilarono tra le altre persone che già partecipavano alla festa.
Maori con i visi tatuati, con i caratteristici costumi di “phormium” (la canapa neozelandese), con i pittoreschi mantelli intessuti di piume variopinte tolte ai “kiwi” e ad altri strani uccelli di questa loro terra. Antichi canti vennero intonati con le mimiche, parate guerresche dello “haka” e danze nazionali.
Per capire, egli si affidò alle spiegazioni della nonna della ragazza: “I canti, per voi europei, sembrano avere ritmi quasi primitivi ma sono ricchi di espressioni proverbiali e metaforiche, di figure mitologiche, di allegorie e vengono espressi tra l’aria e la recitazione. Possono essere la raffigurazione della tristezza, del rimpianto, del desiderio o di una passione infelice. Alcuni sono ispirati dagli affetti familiari, dalla bellezza della natura alla quale noi, per ogni stagione, offriamo un canto: per il diverso colore dei fiori, per il giallo della primavera, per il diffuso candore delle clematidi in estate e per l’oro delle foglie dei pioppi in autunno.”
L’inizio della festa fu dato dal tradizionale saluto di cerimonia consistente nello sfregare a lungo naso contro naso, mugolando reciprocamente complimenti e cortesie. Tutti i partecipanti si lanciarono in questo rituale e lui sfregò il suo naso contro quella della ragazza che aveva conosciuto: questo gli creò piacere anche se non poté spiaccicare una sola parola nel loro idioma.
Ora, un gruppo di uomini iniziò la danza dello “haka mentre a lato alcune giovani donne stavano facendo la danza “della canoa”. Sedute l’una dietro l’altra, imitavano i movimenti dei rematori, mentre altre, in piedi, cantavano battendo ritmicamente le mani. Era l’evocazione del grande viaggio degli antenati che giunsero ad Aotea-roa, la “lunga nuvola bianca.
Tra un susseguirsi di suoni, di danze, di vecchi riti propiziatori, la sera cominciò a scendere e vennero accesi dei grandi falò. Tutti si sedettero a terra e fu l’ora del fiorire di racconti e leggende sui laghi, sui vulcani, su maghi e streghe.
“Sulla cima del monte viveva il mago Ngatotoitangi, che d’inverno gelava di freddo, per cui supplicò le divinità, custodi del sacro fuoco nella lontana Hawaiki di volerlo riscaldare. Il fuoco invocato sopraggiunse per vie sotterranee e divampò dal magico cratere che da allora non cessò dal fumare e vomitare fuoco, essendo lo stesso mago Ngatotoitangi trasformato in fuoco”.
Vennero riportate le leggende sul monte Ngongotaho, vulcano spento ricoperto da fitte boscaglie, avvolto da cupe nebbie che incuteva spavento ai vecchi maori. Lo credevano abitato da maghi e streghe, così un giorno un capo maori pensò di distruggerli incendiando la foresta; ma uno di questi riuscì a mettersi in salvo e si rifugiò sul monte Pirongia, che ancor oggi, credono essere rifugio di streghe e maghi.
La notte passò intera senza sonno tra i nuovi amici maori gentili e sorridenti e l’indomani, nel pomeriggio, sia lui che pochi altri del gruppo ripartirono con la vecchia macchina. Al piccolo villaggio rimase lei: si salutarono strofinandosi vicendevolmente il naso ma non mancò un bacio di saluto all’europea, con la promessa di scriversi via e-mail e di ritrovarsi in un qualche luogo su questa terra.
Ora, la macchina correva veloce verso la cittadina di Hamilton, che si presentò nel suo territorio piatto, quasi completamente privo di rilievi ma gradevole al vedersi, ingentilita dalla ricchezza di verde che gli procurò un senso di grande freschezza.
Per giungervi, avevano seguito le anse del fiume Waikato che, nel suo lungo strisciare, si era riversato nel lago Taupo, proseguendo la sua corsa fino a formare, tra un potente ribollire d’acqua e lunghe scie di spuma nell’aria, le cascate di Huka Falls. Poi ancora, dopo un lungo commino, il fiume si sarebbe riversato nelle azzurre acque del Mare di Tasmania.
In un tempo futuro non ben precisato lui avrebbe percorso tutti quei sentieri, solcato le valli e i densi boschi, perso lo sguardo nelle primule e ascoltato i temporali odorosi fissando, in un istante, l’eternità di queste lande ma ora, il suo vagabondare era giunto allo scadere e la città di Hamilton fu l’ultimo approdo.
Seduto sulla seggiola, leggeva e rileggeva gli appunti del taccuino nel timore d’aver dimenticato un aspetto, un paesaggio, un particolare, un’emozione. L’aria era morbida e vedeva la gente procedere velocemente, mentre l’indolente piacere di prendere il fresco della sera lo corroborava. Si alzò, si spogliò lentamente lasciando cadere a terra il vestito. L’aria gli rinfrescò il corpo e si distese sul letto. Non giungevano rumori alle sue orecchie e il sonno piano, piano, come un bianco sudario si impossessò di lui…sognò i fogli del suo taccuino come fili dondolanti appesi al nulla e una bianca vela in un mare turchese.
La vita col suo incessante andare non consente soste. Echi di viaggi lontani che si raccontano; squarci nel passato che riflettono pallidi bagliori in un presente appeso ad un lungo consunto filo di un colore stinto. Le emozioni si amplificano e come in un incantesimo seguono il flusso di quel tempo.
“Capo Horn” Il grido percorse come un brivido il ponte del veliero e videro quel promontorio in mezzo a veli di nebbia che lasciavano a tratti intravederne il contorno avvolto in un uragano di vento e di pioggia mista a grandine. Grandi nuvoloni neri attraversavano il cielo e il mare era livido e brumoso. La navigazione era malsicura in quel mare spumeggiante, infuriato e la notte era scesa cattiva e gelata poi, sopraggiunse la neve come una spessa brina. Lo scenario era greve in quella remota regione della terra situata in faccia all’estremo Sud dell’America Meridionale. Le montagne, che a tratti apparivano dalle nebbie e dalle basse nuvole, erano di una selvaggia magnificenza e, dalle cupe rocce, affiorava una confusa vegetazione. Di tanto in tanto le nuvole dileguavano, rivelando delle cime montane ricoperte di un ampio mantello di nevi perenni. Ghiacciai azzurri parevano cascate e fiumi di ghiaccio scendevano dai nevai dei picchi montani della Terra del Fuoco riversandosi nei fiordi ed estuari del mare Artico.
Un’alba fredda fece rabbrividire le membra, mentre la pioggia smise di cadere, il vento parve meno impetuoso e il mare sembrò meno cattivo con le onde più lunghe, meno rapide. Il chiarore di un pallido sole fece scomparire le nuvole e l’azzurro riprese tutto il suo spazio.
Il veliero aveva spiegato sugli alberi tutte le vele che si gonfiavano al vento favorevole mentre i fiocchi del bompresso tagliavano l’aria come lame.
La natura che ora si svelava davanti ai loro occhi era dura, tormentata, selvaggia ma calamitava gli sguardi sfoggiando la bellezza ammaliante dell’incognito e l’animo venne colto da un forte desiderio di potersi addentrare tra quelle rupi, immergersi tra quei flutti, tra quelle acque che dal blu intenso variavano al cangiante, al nero cupo, al celeste per confondersi con il cielo. Una natura immensa, maestosa, di cui loro erano una parte infinitesimale.
Sopraggiunse la notte e con essa lo spettacolo della stupenda limpidezza del cielo stellato. Lassù brillava una luce intensissima tanto che le stelle parevano più vicine, quasi a poterle toccare e la Croce del Sud sembrava guidare la navigazione.
In queste estreme latitudini, la signoria del mondo e della natura aveva il sopravvento sull’uomo e la suggestione si impose alla mente tanto che a loro parve di vedere sulle coste e sui crinali del promontorio, l’accendersi dei piccoli fuochi dei “fuegini”, gli indigeni che abitavano questi luoghi. Complice questo scrigno di silenziosità, di contemplazione spirituale, di timore ancestrale, di contatto vivo e puro con la natura più estrema, ora non potevano essere i “fuegini” gli artefici dei piccoli punti luminosi; si erano estinti molti decenni prima e questa terra era diventata la loro tomba.
Muta contemplazione, immortale agonia degli elementi, eventi impetuosi che tormentavano e strattonavano le vele in una paurosa solitudine e, doppiato finalmente Capo Horn, giunsero alla Baia di Wulaia “Una quieta e graziosa insenatura circondata da isolette” (Darwin) dove incontrarono una piccola colonia di castori.
A Punta Arenas, città cilena, era iniziato il viaggio per poi veleggiare verso il fiordo Almirantazgo e la baia di Ainsworth dove, il magnifico ghiacciaio Marinelli dominava lo scenario affiancato dalla cordigliera di Darwin. Colonie di elefanti marini, pinguini, gabbiani australi, cormorani popolavano gli scogli affioranti o le piccole insenature mentre, nel Canale di Beagle, avevano assistito alle emersioni dei giganti del mare: le balene. Ghiacciai, cascate, rocce a strapiombo sulle acque, nevi perenni, densi boschi costituivano un insieme di maestosità, bellezza. Neppure la tavolozza di un abile pittore avrebbe potuto dare una pallida idea dei panorami mozzafiato che si presentavano percorrendo i fiordi.
Le pupille si dilatarono colpite da una luce quasi accecante che inondava la piccola città di Ushuaia. Situata all’estremità meridionale dell’Argentina, durante la stagione più luminosa poteva godere di diciotto ore di luce al giorno. Gli indigeni dicevano che “In questa terra c’è l’origine e la fine di tutto”; questa era l’essenza della loro spiritualità poi annientata dall’arrivo dell’uomo bianco.
La corsa del veliero nelle terre più estreme, remote, coinvolgenti del globo era forse giunta al termine, ma la campana di bordo fece sentire i suoi rintocchi. Una mistica, tremolante luce si stese sulla prua scivolando sull’albero di mezzana che impigliò la sua cima alle nuvole portandole a spasso come aquiloni mentre le vele, ora gonfie di vento garbato, fecero scivolare il veliero verso acque di un magnifico blu berillo.
“Pronti alla virata, avanti dritta !!” fu l’ordine che udirono. Gli uomini si mossero sicuri e precisi e il veliero con la prora al mare, tra flutti spumeggianti che ne ornavano la chiglia, si immerse in un’ovattata nebbia nell’orizzonte immenso, senza fine. Che importanza avrebbe avuto il posto dove andare; il mondo era così grande ed il Beagle era pronto a nuovi viaggi, a nuovi approdi.
Il giardino ora è allagato dall’evanescente chiarore lunare. L’ora è tarda, il giorno è già volto al finire. Una grande diafana luna, a cui salgono lievissimi i veli della sera, illumina dove il verde è già immerso nell’ombra. Il cielo immenso, mostra ancora timide impalpabili impronte rosate mentre tenuissimi vapori d’un azzurrino scuro ornano di una pallida luce l’orizzonte stellato. L’ombra del crepuscolo già soffia e si dilata nel giardino e le lontananze profonde hanno memoria di misteriosità e di paesaggi sognati, remoti.
Siamo alle soglie dell’autunno, gli estremi barlumi dell’estate svaniranno come questa luna che al mattino si scioglie sulle cime degli alberi. Il giardino è senza rumori, tra prato e rovi, c’è un vapore confuso come un mare agitato. Viene su a lente ondulazioni ogni tanto scosso dal vento e scopre, tra filamenti colorati, grappoli di foglie o isolati spicchi di verde.
Viaggi interiori su tagli di tela dove sottili grafie e fumosità cromatiche punteggiano la superficie alternandosi a immagini che scorrono evocando tempi trascorsi in terre lontane.
Le ingiallite pagine, memorie di un imprecisato vissuto lungo le ore di una fuggitiva giornata, sono spiragli su luoghi e misteri sparsi tra le pieghe millenarie della terra che abitano, dondolandosi a sottili fili colorati, entro il confine del giardino intimo, nascosto.
Durata: 10 giorni / 8 notti
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Durata: 8 giorni / 6 notti
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Fino a metà del XX secolo, l’economia mongola si basava sullo yak, pecore, cammelli o l’artigianato dei monaci. L’allevamento del bestiame (equini, ovini, bovini e cammelli) è sicuramente la fonte di ricchezza più rilevante, mentre l’agricoltura è abbastanza recente. In seguito, si sono sviluppate anche le prime fabbriche per la lavorazione della lana e del […]